IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO

lunedì 26 gennaio 2015

IL DECLINO (INEVITABILE?) DELLA COLONIA ITALIA

IL DECLINO (INEVITABILE?) DELLA COLONIA ITALIA 

Non fu certo nell’incontro tra membri della classe dirigente italiana ed esponenti della finanza anglosassone a bordo del panfilo Britannia, il 2 giugno 1992, che si decisero le sorti del nostro Paese, benché non si debba sottovalutare il significato politico di quel gentlemen’s agreement, che è diventato simbolo della politica antinazionale che da allora avrebbe caratterizzato la storia del nostro Paese. Peraltro, fu proprio nel 1992 che si sarebbero create le condizioni per dare l’Italia in pasto ai pescecani della finanza internazionale, sacrificando, per così dire, l’interesse nazionale sull’altare della “geopolitica occidentale”. Nonostante ciò, la gioiosa macchina da guerra che avrebbe fatto a pezzi l’Italia si era già messa in moto perlomeno dal 1981, ossia allorquando c’era stato il divorzio tra il Tesoro e Bankitalia. Un divorzio che costrinse lo Stato italiano a finanziarsi sul mercato a tassi d’interesse salatissimi, tanto che il debito pubblico, che nel 1982 era il 64% del Pil, nel 1992 era diventato il 105,2% del Pil (1). Scrive Domenico Moro: «Nel 1984 l’Italia spendeva – al netto degli interessi sul debito – il 42,1% del Pil, che nel 1994 era aumentato appena al 42,9%. Nello stesso periodo la media Ue (esclusa l’Italia) passò dal 45,5% al 46,6% e quella dell’eurozona passò dal 46,7% al 47,7%. Da dove derivava allora la maggiore crescita del debito italiano? Dalla spesa per interessi sul debito pubblico, che fu sempre molto più alta di quella degli altri Paesi. La spesa per interessi crebbe in Italia dall’8% del Pil nel 1984 all’11,4%, livello di gran lunga maggiore del resto d’Europa. Sempre nello stesso periodo la media Ue passò dal 4,1% al 4,4% e quella dell’eurozona dal 3,5% al 4,4%» (2).
Ma gli anni Ottanta del secolo scorso furono pure gli anni che videro i vertici del Pci condurre il “popolo comunista” verso l’altra sponda dell’Atlantico. Una traversata lunga e difficile, anche perché vi era il rischio per i “vertici rossi” di arrivare con un numero esiguo di passeggeri, anziché con un esercito pronto a combattere “al soldo” della Casa Bianca. A tale proposito, è interessante ricordare quanto ebbe a dichiarare nel 2008 al “Corsera” il generale Jean riguardo alla presa di posizione del Pci contro l’installazione dei missili Cruise a Comiso, avvenuta nel 1985, anche se i lavori nella base siciliana erano cominciati due anni prima (lavori di cui il generale Jean era ben informato dato che all’epoca dirigeva il reparto del ministero della Difesa che controllava le infrastrutture della Nato in Italia). Jean ricordò ai lettori del “Corsera” che il Pci sui missili Cruise non aveva fatto “marcia indietro” rispetto alla celebre affermazione di Enrico Berlinguer, secondo cui si era più sicuri sotto l’ombrello della Nato anziché sotto quello del Patto di Varsavia, dato che, come precisò Jean, «il Pci fu sostanzialmente d’accordo, non poteva dichiararlo apertamente, la sua base non avrebbe capito, ma non creò problemi eccessivi» (3). Nondimeno, non si deve neppure trascurare che il Psi di Craxi intralciò non poco i piani del Pci, di modo che, quando cadde il Muro di Berlino, i “vertici rossi” erano ancora alla prese con la questione del nome da dare alla “nuova cosa” che avevano in mente da parecchi anni. Un ritardo che avrebbe potuto costare assai caro ai dirigenti di quello che si definiva ancora il più forte partito comunista occidentale.
Una volta crollato il Muro, il 9 novembre del 1989, però di tempo il Pci non ne perse più e solo tre giorni dopo ci fu la famosa “svolta della Bolognina”, che nel febbraio del 1991 portò allo scioglimento del “vecchio e glorioso” partito comunista italiano e alla nascita del Partito democratico della sinistra. Qualche pezzo gli ex compagni lo persero, ma fu “roba” di poco conto. Sotto questo aspetto, fu davvero decisivo il lavoro di “MicroMega”, “L’Espresso “e “la Repubblica”, di fatto «i principali strumenti della rieducazione “liberalprogressista” e “antinazionalpopolare” del popolo comunista» (4). D’altra parte, il Pci già negli anni Ottanta, più che il partito delle tute blu, era diventato il partito del ceto medio semicolto, formato in buona misura da colletti bianchi “nullafacenti”, da insegnanti senza nulla da insegnare e da “parassiti” vari, decisi a risolvere una volta per tutte la “questione morale” che affligge l’Italia da tempo immemorabile, benché in verità anch’essi “nati e cresciuti” nel ventre marcio della partitocrazia e indubbiamente non meno abili nell’appropriarsi del denaro pubblico dei tanto da loro detestati “ladri” socialisti e democristiani.
Non fu però ovviamente la “svolta della Bolognina” ad inaugurare il “nuovo corso storico” dell’Italia, bensì l’“intreccio” fra le vicende nazionali e i mutamenti degli equilibri internazionali successivi al crollo dell’Unione Sovietica. Gli eventi del 1992 non lasciano molti dubbi al riguardo. Nel mese di febbraio si firmarono gli accordi di Maastricht (entrati in vigore l’anno successivo). Dei tre negoziatori italiani (Giulio Andreotti, presidente del Consiglio, Gianni De Michelis, ministro degli Esteri, e Guido Carli, ministro del Tesoro) forse solo Carli si rese conto appieno delle conseguenze di questo trattato per la nostra economia, cogliendo pure i potenziali aspetti antiamericani della moneta unica europea, che allora sembrava destinata a porsi come alternativa al dollaro. Non a caso, Carli scrisse: «Gli Stati Uniti hanno esercitato lungamente un diritto di “signoraggio” monetario sul resto del mondo [ragion per cui] negli Stati Uniti […] gli economisti sono scesi in campo per difendere gli interesse della comunità finanziaria americana nel tentativo di delegittimare il progetto di Unione Europea dal punto di vista teorico. La realizzazione del trattato di Maastricht significherebbe la sottrazione agli Stati Uniti di quasi metà del potere di signoraggio di cui dispongono» (5).

Lo stesso Mario Monti allora mise in evidenza che gli accordi di Maastricht comportavano non solo il risanamento della finanza pubblica, ma pure che “rivoltavano come un guanto” il modello di governo dell’economia italiana (6). Comunque, le conseguenze del trattato di Maastricht si capirono soltanto negli anni seguenti, quando sarebbe stato troppo tardi per porvi rimedio e non furono certo quelle previste da Carli. Infatti, non furono solo gli economisti americani a scendere in campo per difendere gli interessi degli Usa. E i “circoli atlantisti” seppero lavorare così bene che l’euro si sarebbe rivelato ben altro che una moneta in grado di competere con il dollaro (7). Ma, se i politici italiani non afferrarono immediatamente le possibili implicazioni del trattato di Maastricht né capirono quali “contromisure” i “circoli atlantisti” avrebbero preso, lo si deve pure al fatto che proprio nello stesso mese di febbraio di quell’anno ormai lontano veniva arrestato a Milano un “mariuolo”, ossia Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio ed esponente del Psi milanese. Era cominciata l’operazione “Mani Pulite”.
Il pool di “Mani Pulite”, come si sa, concentrò tutta la sua “potenza di fuoco” solo contro una parte della “vecchia classe politica”, tanto che si sarebbe “sbarazzato” di Tiziana Parenti, che voleva invece “andare a fondo” pure sulla questione delle “tangenti rosse” al Pci/Pds e alla quale non era nemmeno sfuggito che l’input dell’inchiesta su “Tangentopoli” aveva “radici americane” (8). D’altronde, i giornali italiani – volgari portavoce degli interessi di quella che Gianfranco La Grassa definisce la Id&Gf (cioè “Industria decotta e Grande finanza), subalterna agli interessi d’oltreoceano fin da quando (nel 1942) Enrico Cuccia si era recato a Lisbona per trattare la resa del grande capitale privato italiano agli angloamericani, e garantire così alla famiglia Agnelli e ai suoi “compagni di merende” un “buon posto a tavola” una volta finita la guerra – facevano credere ai “semplici” che fosse in corso addirittura una sorta di “moto rivoluzionario”. Sicché, quando la politica cercò (con il “decreto Conso” del marzo 1993) di porre un freno ad una operazione giudiziaria che stava “liquidando” le uniche forze politiche che (pur corrotte quanto si vuole) erano contrarie a mettere il nostro Paese nelle mani dei “mercati”, i gazzettieri gridarono allo scandalo, il pool di “Mani Pulite” si ribellò e Luigi Scalfaro cestinò il “decreto Conso” ritenendolo incostituzionale. Ma l’Italia allora era già stata messa in ginocchio dalla finanza internazionale.
Com’è noto, poco dopo l’incontro a bordo del Britannia, ossia nella notte tra il 9 eil 10 luglio del 1992, Giuliano Amato penetrò come Diabolik nei forzieri delle banche italiane e prelevò il 6 per 1.000 da ogni deposito. La manovra di luglio e una finanziaria “lacrime e sangue” di oltre 90.000 miliardi si giustificarono con la gravissima situazione del Paese, che rischiava di non riuscire a piazzare sul mercato i titoli di Stato, adesso che Bankitalia non era più obbligata ad acquistarli. Tanto è vero che il breve governo Amato va ricordato anche per le vicende che videro come protagonista la “vecchia lira”, dacché la nostra moneta, dall’estate all’autunno del 1992, fu oggetto di un durissimo attacco da parte di Soros, il famoso “filantropo” e sostenitore di rivoluzioni colorate in varie parti del mondo” (Ucraina compresa). Azeglio Ciampi, allora governatore di Bankitalia, decise di difendere la lira bruciando circa 48 miliardi di dollari, ovverosia dissipando le nostre riserve valutarie senza ottenere alcun risultato. Tale ostinata e inutile difesa della lira fu motivata affermando che, se si svalutava, il Paese sarebbe andato in rovina. A settembre però Amato dovette gettare la spugna e annunciò la svalutazione della lira. Un anno dopo avrebbe dichiarato: «La svalutazione ci ha fatto bene» (9). Le esportazioni tiravano e il peggio pareva passato. Tutto bene allora? Certamente no.
Invero, la tempesta giudiziaria e quella finanziaria spazzarono via ogni ostacolo alla (s)vendita del nostro patrimonio pubblico (comprare “merce” italiana, adesso che le lirette erano svalutate, non era un problema per il grande capitale straniero). In ogni caso, anche Berlusconi, “sceso in campo” per difendere le proprie aziende dall’attacco da parte del Pds (che volle “strafare” offrendo la testa del “cavaliere nero” alla Id&Gf e così si “giocò” la vittoria nelle elezioni politiche del 1994), si guardò bene dal cercare di cambiare questo “stato delle cose”, quando tornò al potere nel giugno del 2001, dopo la sua prima “non esaltante” esperienza di governo (dal maggio 1994 al gennaio del 1995). Le cifre parlano chiaro: dal 1992 al 1995 le privatizzazioni fruttarono allo Stato italiano poco meno di 17.000 miliardi di lire; dal 1996 al 2000 si raggiunse la cifra di 79.209,95 miliardi di lire, mentre dal 2000 al 2005 lo Stato incassò dalla vendita delle nostre aziende pubbliche circa 50.000 miliardi di lire (10). Ma gran parte di questo “tesoretto” andò ad arricchire quella rendita finanziaria per la quale da diversi lustri non pochi italiani lavorano, senza che ancora se ne siano pienamente resi conto. D’altra parte, lo spettacolo offerto dal “teatrino della politica” non poteva non “distrarre” il Paese, al punto che tutto il resto pareva non contasse più nulla.
Non solo passarono così “in secondo piano” il gigantesco terremoto geopolitico causato dalla scomparsa dell’Unione Sovietica e le conseguenze del cosiddetto Anschluss, ossia l’annessione della Germania Est da parte della Germania federale (annessione che avrebbe portato alla quasi completa deindustrializzazione dell’ex Germania Est e alla perdita di milioni di posti lavoro – non certo un buon segno per la futura “unione” europea) (11), ma non venne preso nemmeno in considerazione il fatto che si stava mettendo “in liquidazione” quel modello di economia mista che dopo la Seconda guerra mondiale aveva consentito ad un Paese a sovranità limitata come l’Italia di diventare un Paese industriale avanzato, garantendo “bene o male” benessere e sviluppo ad alcune generazioni di italiani. In pratica, ci si limitò a privatizzare, senza varare alcun “piano industriale”, senza preoccuparsi di ridefinire gli obiettivi strategici della nazione, stravolgendo addirittura il sistema educativo per adeguarlo ai “modelli internazionali” (una scelta i cui effetti nefasti, in verità non solo per l’Italia, si cominciano a vedere solo adesso). In questo contesto, venne pure “internazionalizzato” il debito pubblico. E ciò, si badi, proprio quando gli Usa, ormai unica superpotenza, si lanciavano alla conquista dell’intero pianeta, rimuovendo ogni ostacolo al “libero” movimento dei capitali, lasciandosi definitivamente alle spalle gli accordi di Bretton Woods e autorizzando qualunque crimine finanziario, purché funzionale al successo della nuova strategia statunitense.
Inutile dire che anche l’introduzione dell’euro non venne affrontata con la necessaria maturità politica e il senso di responsabilità che un tale passo richiedeva. Sotto questo profilo, si distinsero in particolare gli intellettuali per i quali contava solo “entrare in Europa”, quasi che l’Italia fosse un Paese africano. Non si tenne nemmeno conto che il Paese si teneva il proprio debito ma al tempo stesso cedeva la propria sovranità monetaria, non all’Europa, che politicamente non esisteva, ma ai tecnocrati di Bruxelles e agli “gnomi” della Bce. Eppure quando i francesi e gli olandesi, nel 2005, bocciarono la costituzione europea, vi sarebbe stata la possibilità di rimettere in discussione l’intero progetto europeo, avendo presenti i gravi rischi che derivavano dalla “inconsistenza geopolitica” dell’Unione Europea e dalla dipendenza del vecchio continente da pericolose e perfino anacronistiche “logiche atlantiste”. Ma anche allora in Italia si prestò poca attenzione ai reali problemi posti da Eurolandia e dalla nuova architettura politica della Ue, anche perché i liberal-progressisti, secondo il solito schema concettuale assai caro alla nostra intellighenzia anglofila, addebitavano tutti i “guai” del nostro Paese al fatto che gli italiani anziché anglosassoni fossero latini (ossia fossero “brutti, sporchi e cattivi”), nonché al fatto che adesso in Italia oltre al papa ci fosse pure “Sua Emittenza”.
Ciò malgrado, anche per i liberal-progressisti era fuori discussione che la società italiana dovesse diventare una società di mercato sotto ogni punto di vista, ma a guidare questo processo di trasformazione avrebbero dovuto essere loro stessi (cioè i “ceti medi riflessivi”, come loro medesimi si autodefinivano), anziché i “cafoni della destra”, il cui americanismo era superficiale e non serio, ponderato e maturo come il loro. I “destri”, autoproclamatisi difensori del “popolo delle partite Iva” (perlopiù commercianti, liberi professionisti e piccoli imprenditori) replicavano accusando i “sinistri” di essere ancora comunisti (una accusa che ancora spesso fanno, dimostrando di avere una capacità di comprendere la politica minore di quella degli avventori del “leggendario” bar dello sport). Entrambi gli schieramenti quindi si accusavano reciprocamente di non avere le competenze necessarie per modernizzare (leggi: “americanizzare”) il Paese: se per i “sinistri” i berlusconiani non erano altro che una massa di corrotti ed evasori fiscali, per i “destri” gli antiberlusconiani erano solo una massa di ipergarantiti e “mangiapane a tradimento”. Inoltre, gli italiani si dividevano anche sulla questione del conflitto di interessi, che per i “sinistri”, finché non fosse stata risolta, non avrebbe dovuto consentire al “cavaliere nero” (accusato perfino di essere colluso con la mafia) di governare l’Italia (una questione che “stranamente” i governi di sinistra, che pure ci sono stati nell’era del berlusconismo, non hanno mai risolto). Berlusconismo e antiberlusconismo diventavano così la foglia di fico dietro la quale maturavano le condizioni perché l’Italia si facesse trovare nella peggiore situazione possibile allorché, nel 2007/8, si verificò la crisi finanziaria. Ma anche di questo ben pochi politici e analisti se ne accorsero in tempo, tanto che nel 2009 secondo l’Ocse la ripresa dell’economia italiana era già in atto e lo stesso Berlusconi ebbe a dichiarare al “Corsera” che l’Italia andava a gonfie vele (12).
In effetti, nonostante l’introduzione dell’euro (che di punto in bianco privò l’Italia della leva fiscale, della leva monetaria e della leva valutaria) l’economia italiana nei primi anni del terzo millennio pareva “cavarsela”, se perfino la quota italiana della manifattura mondiale dal 4,2% nel 2000 era passata al 4,5% nel 2007 (13). D’altronde, è pure noto che la Germania nel 2003, muovendo da livelli di Welfare e di reddito molto alti, decise di comprimere i salari e di sfruttare l’“euro-marco” per diventare una grande potenza commerciale (14), infischiandosene degli squilibri che tale scelta avrebbe inevitabilmente generato, dacché la maggior parte degli altri Paesi di Eurolandia (Italia compresa) non potevano seguire i tedeschi su questa strada, sempre che non volessero far morire di fame un terzo della popolazione. Ma con la crisi finanziaria, peraltro costata all’Italia ben 5 punti del Pil nel 2009, si avviava pure un processo di deindustrializzazione del Paese, che nel 2013 vedeva quasi dimezzata la propria quota della manifattura mondiale (2,6%), mentre i “mercati” potevano usare il debito pubblico italiano, ora pressoché totalmente fuori controllo, per imporre la politica più favorevole per i loro interessi. Naturalmente, i gazzettieri sostenevano che ai “mercati” interessava solo la testa del “clown tricolore”. Una sciocchezza colossale, come questi ultimi drammatici anni hanno dimostrato, al di là delle colpe della destra italiana, certo gravi e numerose ma non più gravi e numerose di quelle della sinistra.
Comunque sia, la situazione del Paese non la si può spiegare solo elencando i noti difetti del “sistema Italia”, quali la corruzione, l’inefficienza della pubblica amministrazione, la spesa pubblica “improduttiva” e l’evasione fiscale. (Non si dovrebbe però nemmeno “generalizzare”, dato che se da un lato vi sono non pochi impiegati pubblici onesti e capaci, dall’altro si sa che il “nero”, per una serie di ragioni dipendenti da “logiche partitocratiche” della cosiddetta “prima repubblica”, è ancora incorporato nel “ciclo economico”, ragion per cui è logico che con i metodi di Equitalia la “gallina dalle uova d’oro” non la si cura ma la si uccide). Ma, proprio come negli anni Novanta non si trattava di mettere in questione la lotta contro la corruzione e le “logiche partitocratiche” (che indubbiamente erano un problema da risolvere), bensì la terapia adottata (giacché avrebbe ancor più indebolito un organismo che aveva bisogno di ben altre cure), così oggi l’accento deve essere messo sul fatto che dei “centri egemonici” stranieri, contando sulla presenza di numerose “quinte colonne”, possono sfruttare la debolezza del nostro Paese, non solo per evidenti scopi economici ma anche per scopi geopolitici (forse meno evidenti, ma non meno importanti). Al riguardo, la subalternità alla politica di potenza statunitense da parte del ceto politico italiano non è una novità e non ha bisogno di spiegazioni. Ma oggi una tale condizione di “vassallaggio” rischia di essere disastrosa per un Paese la cui base produttiva è ormai “lesionata”, e che, oltre ad essere privo di materie prime, si trova a dipendere da altri Stati per il suo fabbisogno energetico e dai “mercati” per quanto concerne il finanziamento del debito (si tratta di un passivo di circa 150 miliardi di euro all’anno se ai 90 miliardi di euro per il servizio del debito si aggiunge il passivo della bilancia energetica – una “emorragia” che sottrae non poche risorse estremamente preziose per la ripresa e lo sviluppo della nostra economia). Tutto ciò difatti rafforza ancora di più il controllo del nostro Paese da parte dei “centri egemonici” atlantisti, le cui strategie non possono certo avere come scopo la difesa del nostro interesse nazionale. Non meraviglia allora che il “Belpaese” rischi di tornare ad essere un vaso di coccio tra vasi di ferro, grazie ad una classe dirigente che in gran parte è al servizio di potentati stranieri.
Di fatto, la stessa politica “suicida” dell’Italia prima nei confronti della Libia e ora verso la Russia non ha alcuna spiegazione valida se non quella secondo cui Roma in realtà “lavora” per tutelare gli interessi di Washington o, se si preferisce, quelli dell’Occidente, anche se ciò comporta un danno gravissimo per l’Italia. Il sostegno di Roma alle guerre d’aggressione degli Usa e alle varie rivoluzioni colorate (dalla Siria all’Ucraina) “sponsorizzate” dai centri di potere atlantisti trova una sua logica spiegazione nella “tradizionale” politica della classe dirigente italiana, che consiste nell’anteporre il proprio “particulare” all’interesse generale, esercitando, al riparo da “brutte sorprese”, il “piccolo potere” che la potenza occidentale predominante concede ad un gruppo politico “subdominante” in una determinata area geopolitica. L’Italia, che è un’ottima base per la “proiezione” della potenza statunitense nel Mediterraneo e nel continente africano, ha appunto il compito di seguire “ciecamente” le direttive della Nato. Anche la politica italiana nei confronti della Germania deve essere interpretata alla luce di questa “sostanziale” subordinazione del ceto politico italiano alle direttive strategiche dei centri di potere atlantisti. Non è un mistero che un euro politicamente debole, favorendo la speculazione internazionale e frenando l’economia europea nel suo complesso, non può che avvantaggiare l’America, per la quale la disintegrazione di Eurolandia sarebbe un “incubo” (15). Non “afferrare” questo aspetto della pur complessa situazione europea, significa inibirsi del tutto la possibilità di comprendere i veri motivi che hanno spinto anche i politici italiani “meno sprovveduti” ad accettare una serie di misure che sapevano essere sicuramente nocive per il nostro Paese.
Si è venuta quindi a creare una situazione che potrebbe cambiare solo se vi fossero una “visione geopolitica” del mondo e una cultura politica del tutto diverse, ma di cui purtroppo al momento non si vede traccia. Né a tale mancanza si può rimediare con il qualunquismo e il pressappochismo, dato che con l’“antipolitica” (anche ammesso che si sia in buonafede) non si va da nessuna parte, ma si può solo sprecare un notevole patrimonio di consensi, lasciandosi sfuggire l’opportunità di “far voltare” pagina al Paese (come prova la storia del M5S). Invero, si dovrebbe tener presente che i “guai” dell’Italia sono sempre derivati, in primo luogo, dalla mancanza di uno Stato forte ed efficiente, in grado di imporre l’interesse della collettività a scapito di interessi settoriali e pronto a premiare i meritevoli anziché i “furbi”, nonché dalla mancanza di una classe dirigente disposta a “pagare in prima persona”. Sicché, come comprese Gramsci, i ripetuti fallimenti dello Stato italiano derivano proprio dall’incapacità della sua classe dirigente di inserire il popolo italiano nel quadro statale, facendo valere una autentica cultura nazional-popolare (16). La stessa crisi di Eurolandia, che secondo non pochi analisti è destinata ad aggravarsi con il passare del tempo, dovrebbe essere perciò un’occasione per creare una coscienza nazionale all’altezza delle sfide del mondo contemporaneo. Che l’Italia nei mesi che verranno possa far fronte con successo a tali sfide è lecito dubitarne, benché ciò non costituisca un valido motivo per rassegnarsi al peggio. Del resto, gli italiani non sono gli unici europei che cercano di uscire dal vicolo cieco in cui li ha condotti una classe dirigente inetta e corrotta. Certo, anche questo potrebbe apparire un tentativo donchisciottesco, considerando la frammentazione sociale e il degrado culturale che caratterizzano da tempo non solo l’Italia ma l’intero continente europeo. Tuttavia, è pur vero che finché tutto non è perduto, nulla è perduto. In quest’ottica, pertanto, dovrebbe avere ancora senso battersi contro l’Europa dei tecnocrati e dei “mercati”, al fine di costruire un polo geopolitico europeo, composto da nazioni libere e sovrane.

Fabio Falchi

Fonte 


NOTE
1) L’autunno nero del ’92 tra tasse e svalutazioni, “Il Sole 24 Ore”, 23/4/2010. Vedi anche
2) Vedi http://keynesblog.com/2012/08/31/le-vere-cause-del-debito-pubblico-italiano/.
3) M. Nese, Quando la crisi dei missili coinvolse l’ Italia. «Così il Pci decise di non creare problemi», “Corsera”, 18/8/2008.
4) V. Ilari, Guerra civile, Ideazione Editrice, Roma, 2001, p. 77.
5) G. Carli, Cinquant’anni di vita politica italiana, Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 412-413.
6) M. Monti, Il governo dell’economia e della moneta, Longanesi, Milano, 1992.
7) Su questo tema mi permetto di rimandare ad un mio recente articolo: L’Europa nella morsa dell’euro (http://www.cese-m.eu/cesem/2014/12/leuropa-nella-morsa-delleuro/).
8) G. Marrazzo, Tiziana Parenti (ex Pm di Mani Pulite): Di Pietro riferiva dell’inchiesta all’America, “Avanti!”, 30/8/2012.
9) E. Polidori, La svalutazione ci ha fatto bene, “Repubblica”, 23/9/1993.
10) Obiettivi e risultati delle operazioni di privatizzazione di partecipazioni pubbliche, Corte dei Conti.
11) Vedi V. Giacché, Anschluss, Imprimatur, Milano, 2013.
12) Ocse c’è ripresa, Italia al top. «Noi il sesto Paese più ricco», “Corsera”, 6/11/2009.
13) Vedi “Scenari Industriali”, Confindustria centro studi, giugno 2014, n. 5, p. 15.
14) Nondimeno, buona parte dei lavoratori tedeschi non se la passano affatto bene. Vedi, ad esempio, L. Gallino, I debiti della Germania e l’austerità della Merkel, “Repubblica”, 26/8/2013, e Idem, Il Jobs Act? Una pericolosa riforma di destra, “Micromega” (http:// temi. repubblica.it/micromega-online/gallino-%E2%80%9Cil-jobs-act-una-pericolosa riforma -di-destra%E2%80%9D/).
15) Su tale importante questione vedi J. Sapir, Bisogna uscire dall’euro?, Ombre Corte, Verona, 2012.
16) A. Gramsci , Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino, 1975, p. 2054.

lunedì 19 gennaio 2015

NOHAM CHOMSKY – Ecco a Voi 10 modi per capire come ci prendono in giro

NOHAM CHOMSKY PADRE DELLA CREATIVITA’ DEL LINGUAGGIO, definito dal New York Times “il più grande intellettuale vivente”, spiega attraverso dieci regole come sia possibile mistificare la realtà.La necessaria premessa è che i più grandi mezzi di comunicazione sono nelle mani dei grandi potentati economico-finanziari, interessati a filtrare solo determinati messaggi.

 NOHAM CHOMSKY - Ecco a Voi 10 modi per capire come ci prendono in giro
1) La strategia della distrazione, fondamentale, per le grandi lobby di potere, al fine di mantenere l’attenzione del pubblico concentrata su argomenti poco importanti, così da portare il comune cittadino ad interessarsi a fatti in realtà insignificanti. Per esempio, l’esasperata concentrazione su alcuni fatti di cronaca (Bruno Vespa é un maestro).
2) Il principio del problema-soluzione-problema: si inventa a tavolino un problema, per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare. Un esempio? Mettere in ansia la popolazione dando risalto all’esistenza di epidemie, come la febbre aviaria creando ingiustificato allarmismo, con l’obiettivo di vendere farmaci che altrimenti resterebbero inutilizzati.
3) La strategia della gradualità. Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, a contagocce, per anni consecutivi. E’ in questo modo che condizioni socio-economiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte durante i decenni degli anni 80 e 90: stato minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione in massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero stati applicati in una sola volta.
4) La strategia del differimento. Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria”, ottenendo l’accettazione pubblica, al momento, per un’applicazione futura. Parlare continuamente dello spread per far accettare le “necessarie” misure di austerità come se non esistesse una politica economica diversa.
5) Rivolgersi al pubblico come se si parlasse ad un bambino. Più si cerca di ingannare lo spettatore, più si tende ad usare un tono infantile. Per esempio, diversi programmi delle trasmissioni generaliste. Il motivo? Se qualcuno si rivolge ad una persona come se avesse 12 anni, in base alla suggestionabilità, lei tenderà ad una risposta probabilmente sprovvista di senso critico, come un bambino di 12 anni appunto.
6) Puntare sull’aspetto emotivo molto più che sulla riflessione. L’emozione, infatti, spesso manda in tilt la parte razionale dell’individuo, rendendolo più facilmente influenzabile.
7) Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità. Pochi, per esempio, conoscono cosa sia il gruppo di Bilderberg e la Commissione Trilaterale. E molti continueranno ad ignorarlo, a meno che non si rivolgano direttamente ad Internet.
8) Imporre modelli di comportamento. Controllare individui omologati é molto più facile che gestire individui pensanti. I modelli imposti dalla pubblicità sono funzionali a questo progetto.
9) L’autocolpevolizzazione. Si tende, in pratica, a far credere all’individuo che egli stesso sia l’unica causa dei propri insuccessi e della propria disgrazia. Così invece di suscitare la ribellione contro un sistema economico che l’ha ridotto ai margini, l’individuo si sottostima, si svaluta e addirittura, si autoflagella. I giovani, per esempio, che non trovano lavoro sono stati definiti di volta in volta, “sfigati”, choosy”, bamboccioni”. In pratica, é colpa loro se non trovano lavoro, non del sistema.
10) I media puntano a conoscere gli individui (mediante sondaggi, studi comportamentali, operazioni di feed back scientificamente programmate senza che l’utente-lettore-spettatore ne sappia nulla) più di quanto essi stessi si conoscano, e questo significa che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un gran potere sul pubblico, maggiore di quello che lo stesso cittadino esercita su sé stesso.
Si tratta di un decalogo molto utile. Io suggerirei di tenerlo bene a mente, soprattutto in periodi difficili come questi.

Redatto da Pjmanc http://ilfattaccio.org

GRECIA – Ribellione fiscale nessuno paga più le tasse

ENTRATE FISCALI sono crollate
NOTIZIA BOMBA: DA QUANDO SONO STATE INDETTE LE ELEZIONI IN GRECIA, CROLLATO IL GETTITO FISCALE (FINE DELLA DITTATURA UE). La data del 25 gennaio si avvicina, ed è una data fondamentale per la Grecia, ma il popolo greco sembra avere già deciso cosa fare. Infatti, molti contribuenti non stanno più pagando le tasse, così scrive il quotidiano di Atene Ekathimerini. In contemporanea, l’agenzia di notizie finanziarie Bloomberg scrive che la Banca centrale europea sarebbe sul punto di “staccare la spina alla Grecia” negandole i fondi per altro già stanziati e promessi se dalle urne uscisse un responso favorevole a Syriza, che ha annunciato a chiare lettere che una volta al governo si rifiuterà di continuare ad osservare le regole di austerity, volute dalla Germania e imposte dalla Troika ad aAtene con la complicità del governo Samaras. In concreto – spiega Bloomberg – la Bce potrebbe bloccare sine die un finanziamento da 30 miliardi di euro previsto per il 2015. Intervistato sempre da Bloomberg James Nixon, responsabile economista europeo presso Oxford Economics, a Londra, afferma che “le trattative iniziano con la minaccia di una distruzione reciproca assicurata. Ma ritirare davvero i finanziamenti dalle banche greche è qualcosa che significherebbe che la Grecia è sul punto di lasciare l’euro”.
GRECIA TASSE 

EKATHIMERINI DA PARTE SUA IN UN ARTICOLO SVELA CHE LE ENTRATE FISCALI sono crollate dal giorno in cui sono state indette le elezioni, per incertezza sul futuro, scrive il giornale, specialmente perchè tra un mese l’euro potrebbe non esserci più in Grecia, oppure potrebbero essere abolite le tesse che invece ora lo stato pretende. L’autorevole quotidiano ellenico (simile al Corriere della Sera, in Grecia) scrive esattamente: “la maggior parte dei contribuenti ha deciso di ritardare i versamenti, considerate le posizioni dei due principali partiti in cima alla lista dei sondaggi elettorali, che sono diametricamente opposti. Syriza, il partito del leader Tsipras, ha promesso infatti di cancellare l’ENFIA, tassa sulla proprietà, e anche di svalutare i crediti inesigibili, mentre Nuova Democrazia riconosce le difficoltà dei cittadini ma non solleva questioni che potrebbero generare problemi e avere conseguenze fiscali”. Ma al di là del fatto che i sondaggi diano in vantaggio Syriza, la decisione della stragrande maggioranza dei contribuenti greci di non versare più le tasse che il partito guidato da Tsipras ha promesso che cancellerà, dà un segnale politico rilevatissimo. Sta a significare che la borghesia greca ha deciso che sarà Syriza a vincere le elezioni e quindi si sta già comportando come se si fossero svolte. Praticamente, una rivoluzione straordinaria: oltre al popolo affamato dal governo Samaras, adesso proprio il ceto che l’aveva votato, lo abbandona. E’ evidente che la Grecia abbia superato con questa silenziosa rivolta fiscale il punto del non ritorno al passato, indipendentemente perfino dalla vittoria dell’uno o dell’altro. Da notare – ma non c’è di che stupirsi, purtroppo – che nessun quotidiano italiano ha dato queste decisive notizie in arrivo dalla Grecia.

*Max Parisi
>Fonte<


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