IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO

sabato 17 marzo 2018

INGROIA INDAGATO

L'ex pm Antonio Ingroia indagato per peculato. Su delega della Procura i finanzieri del nucleo di Polizia economico-finanziaria di Palermo hanno sequestrato oltre 150.000 euro a Ingroia e a Antonio Chisari, all'epoca dei fatti, rispettivamente, amministratore unico e revisore contabile della società partecipata regionale Sicilia e Servizi spa (oggi Sicilia Digitale spa). Entrambi sono indagati per una duplice ipotesi di peculato. Il provvedimento di sequestro preventivo è stato emesso dal gip del Tribunale del capoluogo su richiesta della locale Procura. Le contestazioni mosse agli indagati traggono origine dalla natura riconosciuta alla Sicilia e-Servizi spa di società in house della Regione e dalla conseguente qualifica di incaricato di pubblico servizio rivestita da entrambi.
Ingroia, in particolare, dapprima liquidatore della società (dal 23 settembre 2013), è stato successivamente nominato amministratore unico dall’assemblea dei soci (carica che ha ricoperto dall’8 aprile 2014 al 4 febbraio 2018). "Le indagini hanno consentito di accertare che il 3 luglio 2014 - spiegano le Fiamme gialle - Ingroia si è autoliquidato circa 117.000 euro a titolo di indennità di risultato per la precedente attività di liquidatore, in aggiunta al compenso omnicomprensivo che gli era stato riconosciuto dall’assemblea, per un importo di 50.000 euro". L'autoliquidazione del compenso ha determinato un abbattimento dell’utile di esercizio del 2013 da 150.000 euro a 33.000 euro.

 
"La violazione della normativa nazionale e regionale in materia di riconoscimento delle indennità premiali ai manager delle società partecipate da Pubbliche Amministrazioni - dicono ancora dal Comando provinciale della Guardia di finanza di Palermo - è stata avallata dal revisore contabile, Chisari, il quale, in base alla disciplina civilistica, avrebbe dovuto effettuare verifiche sulla regolarità dell’operazione".
Ingroia si sarebbe, inoltre, indebitamente appropriato di ulteriori 34.000 euro, a titolo di rimborso spese sostenute per vitto e alloggio nel 2014 e nel 2015, in occasione delle trasferte a Palermo per svolgere le funzioni di amministratore, nonostante la normativa nazionale e regionale, chiarita da una circolare dell’assessorato regionale dell’Economia, consentisse agli amministratori di società partecipate residenti fuori sede l’esclusivo rimborso delle spese di viaggio. "Lo stesso Ingroia aveva adottato un regolamento interno alla società che consentiva tale ulteriore indebito rimborso" concludono gli investigatori. Anche in questo caso la violazione della normativa vigente è stata avallata dal revisore contabile, Chisari, indagato - in concorso con Ingroia - anche per questa seconda ipotesi di peculato.
"HO LA COSCIENZA A POSTO" - "Ho appreso dalla stampa del provvedimento emesso nei miei confronti, prima ancora che mi venisse notificato. Comunque ho la coscienza a posto perché so di avere sempre rispettato la legge, come ho già chiarito e come dimostrerò nelle sedi competenti. La verità è che ho denunciato sprechi per centinaia di milioni di euro, soldi che solo io ho fatto risparmiare, e invece sono accusato per una vicenda relativa alla mia legittima retribuzione". Così Antonio Ingroia in una nota dopo il provvedimento di sequestro.
"Ma, ripeto, dimostrerò come stanno le cose. Intanto continuo il mio lavoro di avvocato sempre con lo stesso impegno e nella stessa direzione: oggi sono in udienza a Reggio Calabria, nel processo 'Ndrangheta stragista, come avvocato di parte civile delle famiglie dei carabinieri Fava e Garofalo uccisi nel 1994 dalla mafia e dalla 'Ndrangheta, vicenda collegata con la trattativa Stato-mafia”, continua l'ex Procuratore aggiunto di Palermo.

Fonte

giovedì 8 marzo 2018

Astensionellum, quando la politica non ti rappresenta

“Abbiamo vinto. E daje”. Anno di grazia 2020, tarda primavera. In un Italia che (ancora) non esiste e con una legge elettorale tutta nuova, soprannominata l’Astensionellum, mentre i tg snocciolano i dati delle elezioni, gli opinionisti ripetono i loro vuoti sermoni e non si trova uno straccio di politico da portare davanti alle telecamere per un commento a caldo sulla debacle dei seggi elettorali andati deserti, il nostro non elettore esulta. Il non partito del non voto ha superato ogni pronostico. Altro che il 27,75 per cento della tornata del 2013! O il 35 per cento del 2018. Lo stivale intero è ad un soffio dal superare il clamoroso dato della consultazione siciliana di alcuni anni prima, quando il 53,24%, un elettore sue due, aveva disertato le urne.

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“Stavolta il non governo la facciamo noi”, ripete incredulo il non elettore (chiamiamolo Battista l’astensionista). Quello che per anni aveva dovuto sorbirsi i predicozzi un tanto al chilo sul voto utile, quello a cui avevano detto, “guarda che così vincono gli altri”, “guarda che poi non avrai diritto di lamentarti,” “guarda che…”, va alla finestra, inutilmente trattenuto dai familiari, urla frasi sconnesse sulla “grande non partecipazione popolare” e stappa lo spumante messo in fresco la sera prima. “Vota e turati il naso? Col cazzo! Turatevelo voi adesso”.

Davanti allo schermo l’infografica sulle nuove Camere è implacabile. Non lascia adito a dubbi: dei 630 seggi a Montecitorio ce ne sono da distribuire meno di 300, al Senato non va meglio, i 315 sono diventati 150. Ad indicare le poltrone che resteranno vuote tanti quadratini grigi. Una prateria di quadratini grigi. La democrazia delle assenze ha vinto. Finora a mancare erano gli elettori, adesso pure gli eletti. Il cerchio si chiude. I peones (e non solo loro) rimasti col culo a terra minacciano di rivolgersi alla Corte Costituzionale, “che diamine! si tratta di diritti acquisti in fondo”, tuona un loro improvvisato portavoce.



Per la nuova legge elettorale avevano dovuto mettere mano alla Costituzione, articoli 56 e 57. “Il numero dei deputati non può essere superiore a 630… Dal computo complessivo dei seggi da assegnare verrà sottratta proporzionalmente la percentuale di astensione che superi il 10 per cento, ritenuto fisiologico”. Comprensibile a tutti. Più del Rosatellum sicuramente.
Una rivoluzione copernicana. Ci si era arrivati dopo un intenso e accalorato dibattito in cui si era perfino affacciata l’ipotesi, fortunatamente scartata, di rendere obbligatorio il voto e punire l’astensionismo con una multa salatissima o, in alternativa, con pene corporali.
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Sul finire prematuro di una legislatura che aveva visto all’opera, prima la nuova risicata maggioranza FI-Pd e poi l’unità nazionale FI-Pd-LeU, con la non sfiducia di Lega e M5S e l’opposizione solitaria di Potere al Popolo, si era approdati al conteggio a segno negativo dell’astensionismo. La democrazia italiana pencolava paurosamente e quella soluzione dolorosa - qualcuno l’aveva definita la cura omeopatica - era parsa ai più (capo dello Stato in testa) l’unica in grado di salvare il salvabile. E poi c’era un’assordante rumore di sciabole. Anzi di idranti. Forti dell’ultimo Rapporto sul benessere equo e sostenibile dell’Istat che li piazzava al primo posto nell’indice di fiducia degli italiani, i vigili del fuoco reclamavano per loro gli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama, ovviamente, senza passare per l’inutile e logoro rito delle urne.

Qui finisce il divertissement e veniamo alla realtà di un paese dove si dice messa nelle chiese vuote. La democrazia, in assenza di istituzioni che si appoggino davvero sul voto popolare, è diventata parola vuota, carosello per le élite. Oddio, élite: a scorrere le liste elettorali si trovano mestieranti, pregiudicati, attori e attrici, arrivisti di ogni risma, eccellenze del nulla ed esperti nell’arte antica del poggiaculo, portavoce, portaborse o semplici lacchè.
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Chi oggi discetta contrito sull’astensionismo dovrebbe pure ricordarsi che da diversi anni l’elettore (of course, quello consapevole) viene considerato un impiccio. Un po’ come quei presidi che pensano che la scuola andrebbe molto meglio se non ci fossero gli studenti, il ceto politico ha alimentato l’astensionismo (ci ricordiamo Giorgio Napolitano che in occasione del referendum sulle trivelle ha sostenuto, senza il minimo imbarazzo, che non votare era “il diritto di ogni cittadino”?), salvo poi lamentarsene nei salotti televisivi, quando, come sta accadendo, questo tracima dall’ambito referendario, investe le elezioni politiche e amministrative e supera i livelli di guardia, mostrando a tutti la scandalosa verità di un re nudo e pure deforme: la rappresentanza non rappresenta nessuno, al più una esigua minoranza.

Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera mette il dito nella piaga delle “promesse impossibili” dei vari partiti, però alla fine ritiene che in questa tornata elettorale “la maggioranza andrà ancora alle urne”. Riflesso pavloniano dell’elettore? Sempre sul Corrierone Giuseppe De Rita ammette che “i richiami al senso civico non bastano più” e che sarebbe, invece, utile “far maturare qualche vena nuova di obiettivi”. Facile a dirsi! E con chi poi se il disinteresse dei cittadini è esattamente il risultato del cibo rancido che esce dalle cucine degli psuedo
partiti?

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Sono più di venticinque anni ormai che il nostro Paese è alle prese con sistemi elettorali che comprimono la rappresentanza in nome del falso mito della governabilità, il tutto condito da liste bloccate che paracadutano in parlamento famigli e fedelissimi del leader di turno. Ebbene, forse sarebbe ora di comprimere non la rappresentanza con artifizi il più delle volte incostituzionali, bensì i rappresentanti. E il conteggio a segno negativo dell’astensionismo nella ripartizione degli scranni può rappresentare una possibile soluzione.

Il non partito del non voto è un gioco, ma può essere utile per ricostruire quel rapporto elettore-eletto che è andato pericolosamente in corto circuito con la fine della mai troppo rimpianta prima repubblica. Un cortocircuito che nemmeno i Cinque stelle - quelli che dovevano aprire il parlamento come una scatola di tonno (o erano sardine?) - sono riusciti a sanare, intrappolati da troppe promesse, parecchia ignoranza e molte furbizie. Gli alti lai sulle forze antisistema (quale sistema?) servono a poco, sono, niente più che ipocrisia spicciola e gioco di specchi. Se è vero che il non voto interroga l’incapacità della politica tutta di costruire una narrazione credibile e risposte altrettanto credibili, la prima a farse carico, a pagarne il prezzo, dovrebbe essere la politica medesima. D’altronde se un numero sempre più crescente di italiani ritiene che non vi sia una offerta politica degna di rappresentarlo, nemmeno per approssimazione, logica vuole che gli scranni corrispondenti a quella (non) scelta restino vuoti.

Lo choc determinato dall’Astensionellum può riportare la politica ad interrogarsi sul suo rapporto con la rappresentanza. Ottimista? Forse, in ogni caso se così non fosse servirebbe comunque a ridurre i costi della politica ben più delle tante proposte che sono state avanzate in questi anni. A cominciare dal fallito colpo di mano di Renzi sul Senato che (ancora una volta!) mirava non a ridurre i senatori e i loro ricchi emolumenti ma a sottrarre i cittadini del loro diritto al voto, per finire con la demagogica e mesta storiaccia dei cosiddetti rimborsi Cinque stelle.

Insomma, un meccanismo che penalizzi proporzionalmente i partiti politici quando e se si allontanino dal loro compito di rappresentanza andrebbe pensato. Davvero. E in fretta. Perché poi la nostra malandata democrazia non è mica un divertissement.

 Giampiero Cazzato

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