IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO

mercoledì 12 settembre 2018

Rimini, senzatetto ruba la spazzatura dai cassonetti: denunciato per furto

A "incastrarlo" una residente della zona. Nei confronti dellʼuomo anche lʼaggravante di aver rubato cose esposte alla pubblica fede

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Vogliamo denunciare anche questo pensionato?

 Un senzatetto di 48 anni è stato denunciato per furto dagli agenti della polizia municipale perché sorpreso più volte a frugare nei cassonetti, con l’aggravante di aver rubato cose esposte alla pubblica fede. È accaduto a Rimini. A presentare la denuncia una residente della zona in questione: la donna ha scattato delle fotografie al clochard e le ha portate alla polizia municipale. Lo riporta Il Resto del Carlino.Da quando la donna si è resa conto che il cassonetto della differenziata in cui andava a buttare i suoi rifiuti veniva manomesso da un uomo, ha iniziato a monitorare la situazione e a tenere d’occhio il clochard appostandosi alla finestra e scattando alcune fotografie. Dopo aver visionato le immagini - che immortalano il senzatetto intento a cercare del cibo tra la spazzatura - i vigili si sono rivolti a Hera, la società che si occupa del servizio della gestione dei rifiuti, per sapere se i bidoni fossero stati danneggiati. L’azienda ha confermato il danno e precisato che il clochard aveva portato via cose esposte alla pubblica fede.


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Commento di Oliviero Mannucci: Voglio augurare, veramente con tutto il cuore, alla donna che si è così impegnata per prendere in fragranza di "reato" il povero barbone, di trovarsi un giorno nella stessa situazione ( cosa possibilissima in Italia, soprattutto quando si arriva all'età pensionabile) così forse, e sottolineo il forse, la "signora" in questione capirà quanto sia stata stronza. Un ringraziamento speciale poi va ai vigili, sempre infessibili con i più deboli e e spesso accomodanti con i potenti, che hanno dato seguito alla denuncia. Quando io avevo 15 anni cari signori, quando a Roma incontravo persone in stato di bisogno, come minimo indicavo la sede della Caritas del Colle Oppio dove andare a fare la tessera per avere un pasto caldo, e diverse volte vi ho accompagnato diverse persone, quando avevo tempo. Se la signora, che evidentemente è fortunata, visto che non ha un cazzo da fare tutto il giorno, si fosse voluta impegnare in qualcosa di utile, avrebbe potuto aiutare il senza tetto in questione accompagnandolo in qualche struttura dove poteva essere aiutato. O almeno, mi sarei aspettato un comportamento simile dai vigili. Nelle strade è pieno di gente che delinque indisturbata, che spesso la fanno franca. Un senza tetto, con problemi psicologici, che rovista, badate bene, per trovare un minimo di sostentamento nei cassonetti della spazzatura invece viene denunciato?! Denunciato per cosa? Per essere povero e in difficoltà? Vergognatevi, donna e vigili, mi fate veramente schifo, vi siete comportati in maniera disumana!!!!! Ma ricordatevi...chi la fa, l'aspetti!

giovedì 6 settembre 2018

Lega Ladrona - Fondi Lega, confermato il sequestro di 49 milioni di euro

Genova, 6 settembre 2018 - Fondi Lega, dopo lo slittamento di un giorno della sentenza, i giudici del Riesame di Genova hanno accolto il ricorso della Procura del capoluogo ligure, dando via libera al sequestro dei fondi della Lega al fine di recuperare i 49 milioni di euro di rimborsi elettorali. Si tratta della somma relativa alla truffa per cui è stato condannato in primo grado l'ex segretario Umberto Bossi e l'ex tesoriere Francesco Belsito.

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LA SENTENZA - Ecco il testo della sentenza depositata dai giudici. Il tribunale del Riesame di Genova "dispone il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta anche delle somme di denaro che sono state depositate o verranno depositate sui conti correnti e depositi bancari intestati o comunque riferibili alla Lega Nord successivamente alla data di notifica ed esecuzione del decreto di sequestro preventivo emesso dal tribunale di Genova in data 4 settembre 2017, fino a concorrenza dell'importo di 48.969.617 euro".
LA DIFESA - I difensori della Lega potrebbero ora impugnare la decisione e ricorrere ancora in Cassazione. Era stata proprio la Cassazione ad aprile a rinviare il caso al Riesame, dopo aver accolto la richiesta della Procura di poter sequestrare fondi del Carroccio, oltre a quelli già trovati.

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giovedì 5 luglio 2018

"Renzi compra una villa da 1,3 milioni di euro"

Secondo La Verità, Renzi vorrebbe una villa a Firenze da 1,3 milioni di euro: 220 mq su due livelli e "splendido giardino privato"

 

Una villa a Firenze per 1,3 milioni di euro. Sarebbe questo, secondo quanto scrive La Verità, l'investimento che Matteo Renzi sarebbe in procinto di fare. 


Il tutto, riporta Giacomo Amadori, sarebbe certificato dal fatto che "il 13 giugno scorso, Matteo Renzi, nello studio fiorentino del notaio Michele Santoro, ha firmato, insieme con la moglie Agnese Landini, un preliminare d'acquisto per una villa".
L'annuncio della casa su cui avrebbe messo gli occhi l'ex presidente del Consiglio sarebbe ancora disponibile online. E la descrizione, riporta La Verità, parla di "villa indipendente con splendido giardino privato e passo carrabile. Oggetto unico, 220 mq su due livelli. Al piano terreno: salotto triplo, grande cucina abitabile, studio/camera di sevizio, bagno. Al primo piano: tre camere, due bagni e una splendida terrazza". Il tutto in una "strada prestigiosa, alle pendici di piazzale Michelangelo". Il prezzo di partenza, fa notare il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro, sarebbe stato di 1milione e 500 mila euro, ma Renzi sarebbe riuscito "a spuntarla offrendo 200.000 euro in meno". "Un investimento da 1,3 milioni - spiega Amadori - 1.230.000 euro per la casa e 70.000 per un terreno agricolo di 1.580 metri quadrati adiacente al giardino. Per assicurarseli, due settimane fa, l'ex premier ha versato una caparra di 400.000 euro spalmati su quattro assegni circolari da 100.000 euro l' uno, emessi il 12 giugno scorso dal Banco di Napoli".
Il rogito, scrive La Verità, dovrebbe avvenire entro il 31 luglio 2018: "Per l'acquisto dei beni in oggetto - scrive Amadori, riportando l'atto notarile - la parte promittente acquirente (i Renzi, ndr) ha già richiesto a un istituto bancario un finanziamento necessario per il pagamento di gran parte del prezzo convenuto e la pratica relativa è tutt' ora in corso di istruttoria". A gennaio Renzi aveva detto a Matrix, ospite di Nicola Porro, di avere solo 15mila euro in banca.

Luca Romano



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Firenze: 5 indagati (anche ex comandante) nella polizia municipale. L’accusa: turbativa gara per le divise

 C’è anche l’ex comandante dei vigili urbani di Firenze, Marco Seniga, fra le persone indagate nell’inchiesta per turbativa d’asta nell’ambito della quale ieri, 28 giugno, sono stati perquisiti, dalla Guardia di Finanza, gli uffici del comando della polizia municipale.

Marco Seniga, ex comandante della polizia municipale di Firenze
 


Come riporta La Nazione, anticipando la notizia, Seniga era comandante della municipale fiorentina negli anni – dal 2013 al 2016 – in cui sarebbero avvenuti i fatti contestati, relativi in particolare alle forniture delle divise.
Sul registro degli indagati sono finiti altri due vigili urbani e due imprenditori, Rolando Gabellini e il figlio Riccardo, titolari della società Galleria dello Sport con sede a Firenze. Le indagini, condotte dalla finanza e coordinate dal pm Leopoldo De Gregorio, ipotizzato una turbativa delle gare indette dal Comune di Firenze per la fornitura di materiale alla polizia municipale, in particolare per le divise. «L’azienda Galleria dello Sport è l’unica sul territorio specializzata a fornire questo tipo di beni – sottolinea l’avvocato Alessandro Traversi, legale dei Gabellini – per cui, salvo che non emergano nuove prove, il fatto che non ci siano stati altri concorrenti potrebbe dipendere da questa estrema specializzazione dell’azienda».
Questo il commento del sindaco Nardella: «Non sono preoccupato, ho fiducia nel lavoro della Guardia di Finanza e della magistratura. Mi è stato riferito che la denuncia è partita dall’amministrazione comunale, il che testimonia che l’ambiente della nostra amministrazione è un ambiente sano, dove c’è una immediata reazione ad atteggiamenti e atti che possono essere dei
potenziali crimini, e quindi siamo assolutamente in sintonia per lavorare insieme, istituzioni e magistratura, sul fronte della legalità».

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giovedì 14 giugno 2018

 Risultati immagini per macron testa di cazzo
Macron risponde all’Italia sul caso Aquarius e considera la scelta di Roma una provocazione.
“Chi è che dice io sono più forte dei democratici e se vedo una nave arrivare davanti alle mie coste la caccio via? Se gli do ragione, aiuto la democrazia?”, si è chiesto il presidente Macron ai microfoni di Bfmtv.

“Chi caccia le navi provoca. Non dimentichiamo chi ha parlato e con chi abbiamo a che fare”, ha aggiunto Macron che comunque aveva sottolineato il “lavoro esemplare fatto nell’ultimo periodo con l’Italia”. (Corriere della Sera)

Anche noi non dimentichiamo con chi abbiamo a che fare. La sua campagna elettorale è stata finanziata da

George Soros: 2.365.910,16 €,

David Rothschild: 976.126,87 €,

Liberté, egalité, fraternité...ma de che? 14 paesi africani costretti a pagare tassa coloniale alla Francia e poi vengono a fare la morale a noi...

Sapevate che molti paesi africani continuano a pagare una tassa coloniale alla Francia dalla loro indipendenza fino ad oggi?

 













Quando Sékou Touré della Guinea decise nel 1958 di uscire dall’impero coloniale francese, e optò per l’indipendenza del paese, l’elite coloniale francese a Parigi andò su tutte le furie e, con uno storico gesto, l’amministrazione francese della Guinea distrusse qualsiasi cosa che nel paese rappresentasse quelli che definivano i vantaggi della colonizzazione francese.

Tremila francesi lasciarono il paese, prendendo tutte le proprietà e distruggendo qualsiasi cosa che non si muovesse: scuole, ambulatori, immobili dell’amministrazione pubblica furono distrutti; macchine, libri, strumenti degli istituti di ricerca, trattori furono sabotati; i cavalli e le mucche nelle fattorie furono uccisi, e le derrate alimentari nei magazzini furono bruciate o avvelenate.

L’obiettivo di questo gesto indegno era quello di mandare un messaggio chiaro a tutte le altre colonie che il costo di rigettare la Francia sarebbe stato molto alto.
Lentamente la paura serpeggiò tra le elite africane e nessuno dopo gli eventi della Guinea trovò mai il coraggio di seguire l’esempio di Sékou Touré, il cui slogan fu “Preferiamo la libertà in povertà all’opulenza nella schiavitù.”Sylvanus Olympio, il primo presidente della Repubblica del Togo, un piccolo paese in Africa occidentale, trovò una soluzione a metà strada con i francesi. Non voleva che il suo paese continuasse ad essere un dominio francese, perciò rifiutò di siglare il patto di continuazione della colonizzazione proposto da De Gaule, tuttavia si accordò per pagare un debito annuale alla Francia per i cosiddetti benefici ottenuti dal Togo grazie alla colonizzazione francese. Era l’unica condizione affinché i francesi non distruggessero prima di lasciare.Tuttavia, l’ammontare chiesto dalla Francia era talmente elevato che il rimborso del cosiddetto “debito coloniale” si aggirava al 40% del debito del paese nel 1963. La situazione finanziaria del neo indipendente Togo era veramente instabile, così per risolvere la situazione, Olympio decise di uscire dalla moneta coloniale francese FCFA (il franco delle colonie africane francesi), e coniò la moneta del suo paese. Il 13 gennaio 1963, tre giorni dopo aver iniziato a stampare la moneta del suo paese, uno squadrone di soldati analfabeti appoggiati dalla Francia uccise il primo presidente eletto della neo indipendente Africa. Olympio fu ucciso da un ex sergente della Legione Straniera di nome Etienne Gnassingbeche si suppone ricevette un compenso di $612 dalla locale ambasciata francese per il lavoro di assassino. Il sogno di Olympio era quello di costruire un paese indipendente e autosufficiente. Tuttavia ai francesi non piaceva l’idea. Il 30 giugno 1962, Modiba Keita , il primo presidente della Repubblica del Mali, decise di uscire dalla moneta coloniale francese FCFA imposta a 12 neo indipendenti paesi africani. Per il presidente maliano, che era più incline ad un’economia socialista, era chiaro che il patto di continuazione della colonizzazione con la Francia era una trappola, un fardello per lo sviluppo del paese. Il 19 novembre 1968, proprio come Olympio, Keita fu vittima di un colpo di stato guidato da un altro ex soldato della Legione Straniera francese, il luogotenente Moussa Traoré. Infatti durante quel turbolento periodo in cui gli africani lottavano per liberarsi dalla colonizzazione europea, la Francia usò ripetutamente molti ex legionari stranieri per guidare colpi di stato contro i presidente eletti:
– Il 1 gennaio 1966, Jean-Bédel Bokassa, un ex soldato francese della legione straniera, guidò un colpo di stato contro David Dacko, il primo presidente della Repubblica Centrafricana.
– Il 3 gennaio 1966, Maurice Yaméogo, il primo presidente della Repubblica dell’Alto Volta, oggi Burkina Faso, fu vittima di un colpo di stato condotto da Aboubacar Sangoulé Lamizana, un ex legionario francese che combatté con i francesi in Indonesia e Algeria contro le indipendenze di quei paesi.
– il 26 ottobre 1972, Mathieu Kérékou che era una guardia del corpo del presidente Hubert Maga, il primo presidente della Repubblica del Benin, guidò un colpo di stato contro il presidente, dopo aver frequentato le scuole militari francesi dal 1968 al 1970.
Negli ultimi 50 anni un totale di 67 colpi di stato si sono susseguiti in 26 paesi africani, 16 di quest’ultimi sono ex colonie francesi, il che significa che il 61% dei colpi di stato si sono verificati nell’Africa francofona.
Numero dei Colpi di stato in Africa per paese
Ex colonie francesi
Altri paesi africani
Paese
Numero di colpi di stato
Paese Numero di colpi di stato
Togo 1 Egitto 1
Tunisia 1 Libia 1
Costa d’Avorio 1 Guinea Equatoriale 1
Madagascar 1 Guinea Bissau 2
Rwanda 1 Liberia 2
Algeria 2 Nigeria 3
Congo – RDC 2 Etiopia 3
Mali 2 Uganda 4
Guinea Conakry 2 Sudan 5
SUB-TOTALE 1 13 
Congo 3 
Ciad 3 
Burundi 4 
Repubblica centrafricana 4 
Niger 4 
Mauritania 4 
Burkina Faso 5 
Comores 5 
SUB-TOTAL 2 32 
TOTAL (1 + 2) 45 TOTALE 22
Come dimostrano questi numeri, la Francia è abbastanza disperata ma attiva nel tenere sotto controllo le sue colonie, a qualsiasi prezzo, a qualsiasi condizione.
Nel marzo del 2008, l’ex presidente francese Jacques Chirac disse:
“Senza l’Africa, la Francia scivolerebbe a livello di una potenza del terzo mondo”
Il predecessore di Chirac, François Mitterand già nel 1957 profetizzava che:
“Senza l’Africa, la Francia non avrà storia nel 21mo secolo”
Proprio in questo momento mentre scrivo quest’articolo, 14 paesi africani sono costretti dalla Francia, attraverso un patto coloniale, a depositare l’85% delle loro riserve di valute estere nella Banca centrale francese controllata dal ministero delle finanze di Parigi. Finora, 2014, il Togo e altri 13 paesi africani dovranno pagare un debito coloniale alla Francia. I leader africani che rifiutano vengono uccisi o restano vittime di colpi di stato. Coloro che obbediscono sono sostenuti e ricompensati dalla Francia con stili di vita faraonici mentre le loro popolazioni vivono in estrema povertà e disperazione.
E’ un sistema malvagio denunciato dall’Unione Europea, ma la Francia non è pronta a spostarsi da quel sistema coloniale che muove 500 miliardi di dollari dall’Africa al suo ministero del tesoro ogni anno.
Spesso accusiamo i leader africani di corruzione e di servire gli interessi delle nazioni occidentali, ma c’è una chiara spiegazione per questo comportamento. Si comportano così perché hanno paura di essere uccisi o di restare vittime di un colpo di stato. Vogliono una nazione potente che li difenda in caso di aggressione o di tumulti. Ma, contrariamente alla protezione di una nazione amica, la protezione dell’occidente spesso viene offerta in cambio della rinuncia, da parte di quei leader, di servire il loro stesso popolo e i suoi interessi.
I leader africani lavorerebbero nell’interesse dei loro popoli se non fossero continuamente inseguiti e provocati dai paesi colonialisti.
Nel 1958, spaventato dalle conseguenze di scegliere l’indipendenza dalla Francia, Leopold Sédar Senghor dichiarò: “La scelta del popolo senegalese è l’indipendenza; vogliono che ciò accada in amicizia con la Francia, non in disaccordo.”
Da quel momento in poi la Francia accettò soltanto un’ “indipendenza sulla carta” per le sue colonie, siglando “Accordi di Cooperazione”, specificando la natura delle loro relazioni con la Francia, in particolare i legami con la moneta coloniale francese (il Franco), il sistema educativo francese, le preferenze militari e commerciali.
Qui sotto ci sono le 11 principali componenti del patto di continuazione della colonizzazione dagli anni 50:
#1. Debito coloniale a vantaggio della colonizzazione francese
I neo “indipendenti” paesi dovrebbero pagare per l’infrastruttura costruita dalla Francia nel paese durante la colonizzazione.
Devo ancora trovare tutti i dati specifici circa le somme, la valutazione dei benefici della colonizzazione e i termini di pagamento imposti ai paesi africani, ma ci stiamo lavorando (aiutaci con più info).
#2. Confisca automatica delle riserve nazionali
I paesi africani devono depositare le loro riserve monetarie nazionali nella Banca centrale francese.
La Francia detiene le riserve nazionali di quattordici paesi africani dal 1961: Benin, Burkina Faso, Guinea-Bissau, Costa d’Avorio, Mali, Niger, Senegal, Togo, Camerun, Repubblica Centrafricana, Ciad, Congo-Brazzaville, Guinea Equatoriale e Gabon.
“La politica monetaria che governa un gruppo di paesi così diversi non è complicato perché, di fatto, è decisa dal ministero del Tesoro francese senza rendere conto a nessuna autorità fiscale di qualsiasi paese che sia della CEDEAO [la comunità degli stati dell’Africa occidentale] o del CEMAC [Comunità degli stati dell’Africa centrale]. In base alle clausole dell’accordo che ha fondato queste banche e il CFA, la Banca Centrale di ogni paese africano è obbligata a detenere almeno il 65% delle proprie riserve valutarie estere in un “operations account” registrato presso il ministero del Tesoro francese, più un altro 20% per coprire le passività finanziarie.
Le banche centrali del CFA impongono anche un tappo sul credito esteso ad ogni paese membro equivalente al 20% delle entrate pubbliche dell’anno precedente. Anche se la BEACe la BCEAO hanno un fido bancario col Tesoro francese, i prelievi da quel fido sono soggetti al consenso dello stesso ministero del Tesoro. L’ultima parola spetta al Tesoro francese che ha investito le riserve estere degli stati africani alla borsa di Parigi a proprio nome.
In breve, più dell’ 80% delle riserve valutarie straniere di questi paesi africani sono depositate in “operations accounts” controllati dal Tesoro francese. Le due banche CFA sono africane di nome, ma non hanno una politica monetaria propria. Gli stessi paesi non sanno, né viene detto loro, quanto del bacino delle riserve valutarie estere detenute presso il ministero del Tesoro a Parigi appartiene a loro come gruppo o individualmente.
Gli introiti degli investimenti di questi fondi presso il Tesoro francese dovrebbero essere aggiunti al conteggio ma non c’è nessuna notizia che venga fornita al riguardo né alle banche né ai paesi circa i dettagli di questi scambi. Al ristretto gruppo di alti ufficiali del ministero del Tesoro francese che conoscono le cifre detenute negli “operations accounts”, sanno dove vengono investiti questi fondi e se esiste un profitto a partire da quegli investimenti, viene impedito di parlare per comunicare queste informazioni alle banche CFA o alle banche centrali degli stati africani.” Scrive Dr. Gary K. Busch
Si stima che la Francia detenga all’incirca 500 miliardi di monete provenienti dagli stati africani, e farebbe qualsiasi cosa per combattere chiunque voglia fare luce su questo lato oscuro del vecchio impero.
Gli stati africani non hanno accesso a quel denaro.
La Francia permette loro di accedere soltanto al 15% di quel denaro all’anno. Se avessero bisogno di più, dovrebbero chiedere in prestito una cifra extra dal loro stesso 65% da Tesoro francese a tariffe commerciali.
Per rendere le cose ancora peggiori, la Francia impone un cappio sull’ammontare di denaro che i paesi possono chiedere in prestito da quella riserva. Il cappio è fissato al 20% delle entrate pubbliche dell’anno precedente. Se i paesi volessero prestare più del 20% dei loro stessi soldi, la Francia ha diritto di veto.
L’ex presidente francese Jacques Chirac ha detto recentemente qualcosa circa i soldi delle nazioni africane detenuti nelle banche francesi. Questo qui sotto è un video in cui parla dello schema di sfruttamento francese. Parla in francese, ma questo è un piccolo sunto: “Dobbiamo essere onesti e riconoscere che una gran parte dei soldi nelle nostre banche provengono dallo sfruttamento del continente africano.”
#3. Diritto di primo rifiuto su qualsiasi materia prima o risorsa naturale scoperta nel paese
La Francia ha il primo diritto di comprare qualsiasi risorsa naturale trovate nella terra delle sue ex colonie. Solo dopo un “Non sono interessata” della Francia, i paesi africani hanno il permesso di cercare altri partners.
#4. Priorità agli interessi francesi e alle società negli appalti pubblici
Nei contratti governativi, le società francesi devono essere prese in considerazione per prime e solo dopo questi paesi possono guardare altrove. Non importa se i paesi africani possono ottenere un miglior servizio ad un prezzo migliore altrove.
Di conseguenza, in molte delle ex colonie francesi, tutti i maggiori asset economici dei paesi sono nelle mani degli espatriati francesi. In Costa d’Avorio, per esempio, le società francesi possiedono e controllano le più importanti utilities – acqua, elettricità, telefoni, trasporti, porti e le più importanti banche. Lo stesso nel commercio, nelle costruzioni e in agricoltura.
Infine, come ho scritto in un precedente articolo, Africans now Live On A Continent Owned by Europeans! [Gli africani ora vivono in un continente di proprietà degli europei !]
#5. Diritto esclusivo a fornire equipaggiamento militare e formazione ai quadri militari del paese
Attraverso un sofisticato schema di borse di studio e “Accordi di Difesa” allegati al Patto Coloniale, gli africani devono inviare i loro quadri militari per la formazione in Francia o in strutture gestite dai francesi.
La situazione nel continente adesso è che la Francia ha formato centinaia, anche migliaia di traditori e li foraggia. Restano dormienti quando non c’è bisogno di loro, e vengono riattivati quando è necessario un colpo di stato o per qualsiasi altro scopo!
#6. Diritto della Francia di inviare le proprie truppe e intervenire militarmente nel paese per difendere i propri interessi
In base a qualcosa chiamato “Accordi di Difesa” allegati al Patto Coloniale, la Francia ha il diritto di intervenire militarmente negli stati africani e anche di stazionare truppe permanentemente nelle basi e nei presidi militari in quei paesi, gestiti interamente dai francesi.
Basi militari francesi in Africa
Quando il presidente Laurent Gbagbo della Costa d’Avorio cercò di porre fine allo sfruttamento francese del paese, la Francia ha organizzato un colpo di stato. Durante il lungo processo per estromettere Gbagbo, i carri armati francesi, gli elicotteri d’attacco e le forze speciali intervennero direttamente nel conflitto sparando sui civili e uccidendone molti.
Per aggiungere gli insulti alle ingiurie, la Francia stima che la business community francese abbia perso diversi milioni di dollari quando, nella fretta di abbandonare Abidjan nel 2006, l’esercito francese massacrò 65 civili disarmati, ferendone altri 1200.
Dopo il successo della Francia con il colpo di stato, e il trasferimento di poteri ad Alassane Outtara, la Francia ha chiesto al governo Ouattara di pagare un compenso alla business community francese per le perdite durante la guerra civile.
Il governo Ouattara, infatti, pagò il doppio delle perdite dichiarate mentre scappavano.
#7. Obbligo di dichiarare il francese lingua ufficiale del paese e lingua del sistema educativo
Oui, Monsieur. Vous devez parlez français, la langue de Molière! [Sì, signore. Dovete parlare francese, la lingua di Molière!]
Un’organizzazione per la diffusione della lingua e della cultura francese chiamata “Francophonie” è stata creata con diverse organizzazioni satellite e affiliati supervisionati dal Ministero degli esteri francese.
Come dimostrato in quest’articolo, se il francese è l’unica lingua che parli, hai accesso al solo 4% dell’umanità, del sapere e delle idee. Molto limitante.
#8. Obbligo di usare la moneta coloniale francese FCFA
Questa è la vera mucca d’oro della Francia, tuttavia è un sistema talmente malefico che finanche l’Unione Europea lo ha denunciato. La Francia però non è pronta a lasciar perdere il sistema coloniale che inietta all’incirca 500 miliardi di dollari africani nelle sue casse.
Durante l’introduzione dell’Euro in Europa, altri paesi europei scoprirono il sistema di sfruttamento francese. Molti, soprattutto i paesi nordici, furono disgustati e suggerirono che la Francia abbandoni quel sistema. Senza successo.
#9. Obbligo di inviare in Francia il budget annuale e il report sulle riserve
Senza report, niente soldi.
In ogni caso il ministero della Banche centrali delle ex colonie, e il ministero dell’incontro biennale dei ministri delle finanze delle ex colonie è controllato dalla Banca Centrale francese/Ministero del Tesoro.
#10. Rinuncia a siglare alleanze militari con qualsiasi paese se non autorizzati dalla Francia
I paesi africani in genere sono quelli che hanno il minor numero di alleanze militari regionali. La maggior parte dei paesi ha solo alleanze militari con gli ex colonizzatori! (divertente, ma si può fare di meglio!).
Nel caso delle ex colonie francesi, la Francia proibisce loro di cercare altre alleanze militari eccetto quelle che vengono offerte loro.
#11. Obbligo di allearsi con la Francia in caso di guerre o crisi globali
Più di un milione di soldati africani hanno combattuto per sconfiggere il nazismo e il fascismo durante la seconda guerra mondiale.
Il loro contributo è spesso ignorato o minimizzato, ma se si pensa che alla Germania furono sufficienti solo 6 settimane per sconfiggere la Francia nel 1940, quest’ultima sa che gli africani potrebbero essere utili per combattere per la “Grandeur de la France” in futuro.
C’è qualcosa di psicopatico nel rapporto che la Francia ha con l’Africa.
Primo, la Francia è molto dedita al saccheggio e allo sfruttamento dell’Africa sin dai tempi della schiavitù. Poi c’è questa mancanza di creatività e di immaginazione dell’elite francese a pensare oltre i confini del passato e della tradizione.
Infine, la Francia ha 2 istituzioni che sono completamente congelate nel passato, abitate da “haut fonctionnaires” paranoici e psicopatici che diffondono la paura dell’apocalisse se la Francia cambiasse, e il cui riferimento ideologico deriva dal romanticismo del 19° secolo: sono il Ministero delle Finanze e del Budget della Francia e il Ministero degli Affari esteri della Francia.
Queste 2 istituzioni non solo sono una minaccia per l’Africa ma anche per gli stessi francesi.
Tocca a noi africani liberarci, senza chiedere permesso, perché ancora non riesco a capire, per esempio, come possano 450 soldati francesi in Costa d’Avorio controllare una popolazione di 20 milioni di persone!?
La prima reazione della gente subito dopo aver saputo della tassa coloniale francese consiste in una domanda: “Fino a quando?”
Per paragone storico, la Francia ha costretto Haiti a pagare l’equivalente odierno di $21 miliardi dal 1804 al 1947 (quasi un secolo e mezzo) per le perdite subite dai commercianti di schiavi francesi dall’abolizione della schiavitù e la liberazione degli schiavi haitiani.
I paesi africani stanno pagando la tassa coloniale solo negli ultimi 50 anni, perciò penso che manchi un secolo di pagamenti!
Commento di Oliviero Mannucci: Come disse qualcuno un po' di tempo fa.... la peggiore forma di violenza è la povertà!
 

giovedì 7 giugno 2018

Vibo Valentia, la rabbia dei braccianti in corteo: “Non siamo parassiti, questa terra saccheggiata dai politici non dai migranti”

Un corteo che dalla tendopoli è arrivato fino al Comune di San Ferdinando. Un centinaio di migranti, guidati dal sindacato Usb, hanno marciato stamattina per manifestare tutta la loro rabbia per l’omicidio di Sacko Saumayla, il maliano di 30 ucciso nelle campagne di San Calogero, in provincia di Vibo Valentia
 
 Un colpo di fucile alla testa che non gli ha lasciato scampo mentre stava prendendo delle lamiere d’alluminio in un terreno abbandonato e sotto sequestro. Una sorta di tiro al bersaglio in cui sono rimasti lievemente feriti anche altri due migranti stagionali che vivevano, assieme a Sacko, nella baraccopoli a ridosso del porto di Gioia Tauro.


 
Prima del corteo, ci sono stati alcuni momenti di tensione. “Salvini razzista” hanno urlato i braccianti in corteo. E ancora: “Libertà, libertà… Tocca uno e tocchi tutti”. Alla fine, però, la manifestazione si è svolta in maniera ordinata. Al fianco dei migranti c’era anche don Pino De Masi, il prete di Libera da anni impegnato contro la ‘ndrangheta in provincia di Reggio Calabria: “Certamente il clima non è stato favorevole e non è favorevole. Credo che adesso dobbiamo tutti darci da fare per abbassare i toni altrimenti i frutti sono questi che stiamo vedendo. Mi auguro che la campagna elettorale sia finita e che chi governa comprenda che deve governare il Paese. La campagna elettorale è finita per tutti”.
Gli fa eco il sindacalista dell’Usb Abobakar Soumaoro che si scaglia contro il ministro dell’Interno Matteo Salvini: “Ha dichiarato che è finita la pacchia. Ma è finita per lui non per noi che non siamo mai stati nella condizione di parassita come lo è stato il suo partito politico che, come dicono le indagini, prendeva i contributi e li mandava in Africa. Questa terra è stata saccheggiata non dai migranti ma dai politici”.  “Saumayla era un cittadino, un bracciante, un lavoratore. – aggiunge Saoumaoro – Aveva una figlia di 5 anni e una compagna in Mali. Da anni era impegnato nella lotta rispetto a una condizione di lavoro di assoluta schiavitù. Questo era Saumayla. Non era un extracomunitario, un migrante ma una persona, un sindacalista. Non era un ladro ma viveva in quella gabbia”.
Sul fronte delle indagini, i carabinieri stanno cercando ancora l’uomo che con la Fiat Panda ha ucciso il ragazzo maliano e ferito gli altri due migranti. Non ci sono molte novità rispetto a quello che già era emerso nelle ore successive alla sparatoria se non che, il killer pare si trovasse già sul posto quando le tre vittime erano arrivate per prendere quelle lamiere di alluminio che servivano a costruire le baracche. Non è escluso, però, che gli inquirenti, coordinati dalla Procura di Vibo Valentia, abbiano già identificato l’uomo grazie alle indicazioni dei due braccianti scampati all’agguato. Migranti che, agli investigatori, hanno fornito anche i primi numeri dell’auto con la quale si è dato alla fuga.

Fonte

Commento di Oliviero Mannucci:  In Italia oramai siamo allo sbando. I diritti per i lavoratori non esistono più e ne fanno tutti le spese, dagli italiani agli stranieri di buona volontà. Che vergogna! E questo sarebbe un paese civile?





giovedì 17 maggio 2018

VERGOGNA! L'autismo non sarà più garantito dal Fondo del Servizio Sanitario Nazionale.

Risultati immagini per autismo





E’ successo ieri in Conferenza Unificata , con l’approvazione dell’atto di intesa che aggiorna le nuove Linee di indirizzo in relazione all’autismo.
Solo un anno fa, vi era stato un timido plauso a quello che sembrava un passo avanti nel riconoscimento dell’autismo, ovvero l’entrata della patologia nei Lea, e la garanzia che ai pazienti fosse garantita dal SSN, l’erogazione di cure e servizi.
Rifacendosi alla legge 134 del 2015, all’articolo 60 si leggeva:
“Il servizio sanitario nazionale garantisce alle persone affette dai disturbi dello spettro autistico, prestazioni di diagnosi precoce, cura e trattamento individualizzato”
Oggi la doccia fredda, perché ieri l’atto di intesa che è scaturito dalla Conferenza Unificata del 10 maggio, ha squalificato il documento precedente, cancellando di fatto la legge 134 del 2015 e l’articolo 60.
Nella revisione della linee di indirizzo è stata inserita la clausola:
“tali linee di indirizzo saranno realizzate compatibilmente con le risorse disponibili a livello territoriale”.
I servizi e le cure previste per le persone affette da autismo, saranno garantiti dalle Asl e solo in relazione alle risorse finanziare disponibili.
Le associazioni minacciano di impugnare l’atto di intesa.
Gli autistici rimarranno privi di cura e di assistenza, rilegandoli allo stato di abbandono.
Le famiglie al solito dovranno farsi completamente carico dell’assistenza al proprio caro.
Ancora un volta quello che sembrava un passo avanti, indietreggia irrimediabilmente.
da il Sole24 ore sanità

giovedì 10 maggio 2018

Raid Casamonica. Pestano un barista e prendono a cinghiate una disabile

I due aggressori si sono allontanati a bordo di una Ferrari e una Golf

 

Entrare in un bar della capitale e non essere serviti subito è un affronto troppo grande per due appartenenti alla famiglia dei Casamonica che, per riportare il "rispetto dovuto" nei loro confronti, hanno prima aggredito il barista che si era azzardato a servire altri prima di loro, e poi con una ferocia inaudita hanno preso a cinghiate e calci al petto, una giovane ragazza disabile, l’unica che è intervenuta a difesa del gestore del bar in via Salvatore Barzilai, zona Romanina.
Le violenze risalgono al 1° aprile scorso, giorno di Pasqua quando sia il barista che la ragazza disabile sotto gli occhi di tutti sono stati vittima di un feroce pestaggio e minacce di morte. Nessuno infatti ha mosso un dito per mettere fine a quell’assurda aggressione, ma il motivo è semplice: la zona in cui è situato il locale, teatro dell’aggressione, è un quartiere in cui i Casamonica se la comandano e nessuno dei residenti vuole correre il rischio di avere a che fare con loro. A conferma di questo la testimonianza del barista che riporta come motivo della violenza il fatto che i due Casamonica rivendicavano la "titolarità" del loro territorio.
I due aggressori dopo aver distrutto il locale, come se niente fosse si sono poi tranquillamente allontanati a bordo di una Ferrari nera e una Volkswagen Golf bianca. Poche ore dopo dello stesso giorno, la giovane e coraggiosa disabile ha comunque avuto il coraggio di sporgere denuncia agli agenti di polizia del commissariato Romanina, gli stessi che erano immediatamente intervenuti sul posto al momento del pestaggio. Il gestore del bar, un romeno di 39 anni, era stato picchiato così violentemente da dover ricorrere alle cure presso il vicino policlinico di Tor Vergata.


Silvia Mancinelli
Mary Tagliazucchi

Fonte

Commento di Oliviero Mannucci: Della serie la mamma degli imbecilli è sempre incinta. Spero che li sbattano in galera e buttino via la chiave!!!

Terremoto, Tajani dona 30mila euro ai Comuni terremotati: la soddisfazione di Marcozzi





Antonio Tajani, presidente Europarlamento
Antonio Tajani, presidente Europarlamento





Il Presidente dell’Europarlamento Antonio Tajani ha deciso di donare i soldi del prestigioso premio Carlo V ai Comuni terremotati. 30 mila euro a Arquata, Accumoli e Norcia.

“Il suo gesto – spiega in una nota la Capogruppo regionale FI-Marche, Jessica Marcozzi – è lo specchio di una vicinanza vera, concreta, costante nei confronti di tutti quei cittadini del Centro Italia che hanno sofferto e continuano a soffrire a causa del terremoto, una risposta virtuosa a una burocrazia e a una politica che non hanno ancora saputo dare le giuste e doverose attenzioni.

Terremoto, Tajani a Norcia: dall'Europa arriveranno due miliardi per la ricostruzione del Centro Italia
Tajani a  Norcia

Vicinanza vera, concreta e, si diceva, costante: Tajani ha dedicato la sua elezione ai terremotati, ha visitato i luoghi colpiti dal sisma e si è speso in prima persona affinché fossero stanziati da subito 2 miliardi di euro per le zone terremotate. E oggi devolve i 30 mila euro del premio. Tajani, esempio virtuoso di politica fattiva e responsabile, tiene oltretutto sempre alta l’attenzione sui terremotati”.

Fonte

Commento di Oliviero Mannucci: Bravo Tajani! Ma ora il governo che sta nascendo deve darsi una mossa a dare un tetto a chi è rimasto senza da troppo tempo. E sto parlando di tutti i terremotati italiani, anche quelli dell'Irpinia, molti dei quali  stanno ancora aspettando. Vediamo se Salvini e Di Maio,  se troveranno un accordo, lavoreranno per il bene del paese o anche loro penseranno solo alle loro poltrone. Perchè cari signori siamo alla frutta, se anche i Cinque Stelle non manterranno le promesse sarà rivoluzione!

giovedì 19 aprile 2018

Tangenti sanità Milano: storia di Renata, due volte vittima di Calori

Mentre lo scandalo delle tangenti nella sanità travolge pezzi grossi degli ospedali Pini e Galeazzi di Milano, ci sono pazienti che raccontano storie al limite dell'incredibile. Tra questi c'è anche una giornalista di Osservatorio Diritti, Renata Fontanelli. Che ha deciso di mettere nero su bianco cosa le è successo col professor Giorgio Maria Calori

L’ultimo scandalo sanità scoppiato a Milano una settimana fa sembra essere solo all’inizio. Tanto che gli investigatori annunciano che potrebbe essere la punta di un iceberg. Il martedì nero, lo scorso 10 aprile, è cominciato con l’arresto di un imprenditore nel settore di apparecchiature elettromedicali, Tommaso Brenicci, e di cinque pezzi grossi del Servizio sanitario nazionale italiano. Giorgio Maria Calori, primario, Paola Navone, direttore sanitario, Carmine Cucciniello, direttore del dipartimento di ortopedia. Tutti e tre dipendenti del Gaetano Pini. Con loro anche Lorenzo Drago e Carlo Luca Romanò, responsabili del laboratorio di analisi uno e del centro di chirurgia ricostruttiva l’altro, entrambi del Galeazzi.

 

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I quattro primari agli arresti domiciliari: in alto Carmine Cucciniello e Giorgio Maria Calori del Cto-Gaetano Pini, sotto Carlo Romanò e Lorenzo Drago del Galeazzi

 

Si tratta di due tra gli ospedali più quotati in Italia. Gli indagati sono tutti ai domiciliari, tranne Brenicci che è in carcere. Pesanti le accuse, tutte respinte venerdì 13 aprile durante il primo interrogatorio.


Tangenti sanità Milano: le accuse dello scandalo

Si va dalla corruzione alle false società costruite ad hoc per ricevere tangenti fino al mancato rispetto delle regole d’appalto, conflitto d’interessi, violazioni dei doveri d’ufficio. E non si esclude che ora possano arrivare nuovi capi d’imputazione, soprattutto per i medici.

Le difficoltà economiche del primario del Pini

Calori, che i colleghi definiscono nelle intercettazioni «avido farabutto» e che il compagno di arresti nonché collega Cucciniello, intercettato, chiama «delinquente vero», nel raccontare a un amico di quando, pur di operare e incassare, «si inventò un’infezione di sana pianta», ultimamente si sarebbe trovato in difficoltà economiche.
A causa anche di un mutuo di circa 5 mila euro per l’acquisto di un appartamento, costato 1 milione e 300 mila euro. Del fatto ne parla al telefono l’imprenditore Brenicci, dichiarando che non intende dargli i «150.000 euro per terminare i lavori». Perché?
«Se comincio a dargliene poi me ne chiede altri. D’altronde si è incasinato con quei 600 mila euro spesi per la ristrutturazione».

Il professor Giorgio Maria Calori e i diritti del malato

Il medico pare non essere molto amato al Pini, ma è assai temuto per i suoi modi autoritari e irosi. Da quello che sta emergendo dalle indagini, sembra che soldi e carriera lo interessino più dei pazienti. Ed è questa mancanza di rispetto per i diritti dei malati che ha fatto montare il caso negli ultimi giorni. Più delle tangenti, cui ormai gli italiani sembrano quasi averci fatto il callo.
I fatti più gravi, per il momento, non hanno ipotesi di reato. Pare che il professore avesse il vizio del bisturi facile. Non al Pini, ma in una struttura privata dove lavora, oltre all’ospedale. Molte al momento le denunce, tante anonime. Nessuno poi ne vuole parlare con la stampa, forse hanno paura.
Gli investigatori hanno parlato di «cupidigia», riferendosi a lui, sottolineando come «il bisogno di denaro avesse generato in lui l’inclinazione a intervenire chirurgicamente come fonte di guadagno anche quando non strettamente necessario senza rispetto alcuno per i pazienti».
È successo anche a me, e qui sotto potete leggere la storia.

Renata Fontanelli, due volte vittima di Calori

Il figlio passa da una comune patologia all’ipotesi di tumore

«Faccia uscire suo figlio dalla stanza per favore». Il ragazzino ha 12 anni e da più di un mese continua a fare analisi ed esami. Il professore sfodera l’aria di circostanza, quella che probabilmente usa con tutti quando deve dare una brutta notizia. «Signora, farei dei marcatori tumorali a questo punto. Potrebbe non esserci nulla, ma meglio andare sul sicuro».
Dal Morbo di Schlatter (fortissimi dolori alle giunture delle ginocchia) al tumore il passo non è proprio automatico, ma che ne so io? Il professore nel suo studio è venerato e temuto. È primario all’ospedale pubblico Pini, eccellenza dell’ortopedia italiana.
Al telefono, davanti a noi, chiama una ditta di plantari per annunciare il nostro arrivo e si raccomanda di consegnargli al più presto «quei biglietti in tribuna per la partita». Quei plantari mi sarebbero costati una fortuna, infatti non li ho mai ritirati. Me li sono fatti fare da un’altra parte a metà prezzo.
Il ragazzino, mio figlio, va in sala d’attesa. Sempre piena la sua anticamera, tanti vecchietti (ovviamente, è ortopedico), mamme, bambini.
Mi spiegherà poi un suo collega che l’inquietante morbo altro non è che una patologia frequente della preadolescenza dovuta a una crescita troppo veloce. Non ci sono cure se non ghiaccio e riposo.

Dove fare gli esami lo dice il primario (o almeno ci prova)

Improvvisamente però spunta l’ipotesi di un cancro e il professore indica la struttura migliore dove andare a fare i marcatori. Io dico no: «Vado dove abbiamo una convenzione», il più grosso centro di Milano. E lui risponde, seccato davvero e improvvisamente sbrigativo: «Faccia come le pare, se poi sbagliano non è un problema mio».
E così faccio: vado a fare gli esami al Centro Diagnostico Italiano. Data la giovane età del paziente viene data la massima urgenza per la consegna dei risultati. Apro la busta e non vedo asterischi. La porto dal professore in studio e la segretaria mi assicura che lui la guarderà «Non appena arriva in studio». Comincio quindi ad aspettare una sua telefonata.

La lunga attesa piena di «ansia tremenda»

Seguono tre giorni di silenzio, da parte sua. Di ansia tremenda, da parte mia. Di telefonate da amici e parenti che mi chiedono stupiti il perché io non sappia ancora nulla. E me lo chiedo anch’io per tre notti, finché prendo il telefono e lo chiamo sul cellulare.
«Sono malato, non mi disturbi». È la risposta secca, seguita dalla rassicurazione: «Appena mi riprendo vado in studio e la chiamo».
Passano altri tre giorni finché in studio ci vado io. Mi dicono che è occupato con un paziente, in realtà lo sento parlare al telefono. Una, due, tre volte. Finché un’ora e mezza dopo sono io ad aprire la sua porta e a piantarmi davanti a lui. La busta la apre davanti a me e con disprezzo mi dice: «Qui non c’è niente».

Un uomo «divorato dall’ambizione professionale ed economica»

Io perdo la calma. Lui più di me. Chiama i suoi collaboratori e chiede loro di portarmi fuori. La segretaria ha già pronta l’ultima delle tante fatture, 400 e rotti euro per le fisioterapie. Pagare e sparire.
Esco, è il gennaio 2015. Fermo la macchina ed esplodo. Di rabbia. In lacrime racconto a una mia amica l’accaduto e mi risponde: «Ma quell’uomo è fatto così, divorato dall’ambizione sia professionale che economica. A Milano lo sanno tutti». Tranne me, evidentemente.
Non l’ho più visto se non in foto qualche giorno fa, dopo la notizia dell’arresto.

Per operare la figlia Calori suggerisce la (costosa) clinica privata

E dire che avrei già dovuto capirlo qualche settimana prima, nel dicembre 2014, quando nel suo studio arrivai con mia figlia con una diagnosi dell’ospedale di Aosta di lesione dei legamenti crociati.
Operare immediatamente, dice lui, primario al Pini. Dove? In una prestigiosa clinica privata, dove lavora nel tempo libero. Chiedo un preventivo e lo porto alla Casagit (cassa autonoma giornalisti italiani), con cui Calori lavora in convenzione. Devo aggiungere 2.000 euro. Torno in studio e lui mi guarda con aria sprezzante:
«Non riesce a trovare 2.000 euro, signora? Si tratta della salute di sua figlia».
Evidentemente trasudiamo benessere. Per concludere mi congeda con un: «Fossi io nella sua situazione chiederei un prestito».
Ma se del Morbo di Schlatter non so nulla, di legamenti m’ intendo un po’ di più. Gli chiedo quindi di mettermi in lista di attesa al Pini, un mese non cambierà la sorte del ginocchio di mia figlia. E poi non credo nelle strutture private, quando in Italia gli ospedali pubblici da sempre sono eccellenze.

I suggerimenti di Paola Navone, la direttrice sanitaria del Pini

In quella lista d’attesa mia figlia non è mai entrata. Lo scoprirò dopo averlo chiesto alla direttrice sanitaria Paola Navone, anche lei ora ai domiciliari, presentatami da una comune amica. Navone sembra una persona affabile e generosa. Mi racconta che da qualche settimana deve andare in giro con la scorta e mi fa capire che Calori è uno da cui stare alla larga. Strano, dagli atti dell’inchiesta sembra fossero “soci in affari”.
Sarà qualche mese dopo un altro primario del Pini a operare mia figlia. Totalmente in Ssn (Servizio sanitario nazionale).
Oggi, solo dopo l’arresto, spuntano fatti molto più gravi. Non ci sono per il momento ipotesi di reati diretti contro pazienti, è malafede. Malcostume. Avidità, gioco sporco, perché quando si gioca con la salute altrui e si ricopre una carica pubblica più sporco di così si muore.

Effetto #MeToo: piovono le denunce

A me è andata bene, ma adesso arrivano gli altri, effetto #MeToo. Ma perché non l’hanno denunciato prima quelli che sono davvero finiti, parrebbe, sotto ai suoi ferri riportando lesioni permanenti? Perché?
I miei sono stati danni morali, maltrattamenti e forse menzogne. Ho chiamato la mia cassa di previdenza, la Casagit, segnalando il caso, ma non credo abbiano mai fatto qualcosa. Mi avevano poi suggerito di fare un esposto all’Ordine dei Medici. Ma a quel punto io del prof Calori non volevo più sentir parlare.

Renata Fontanelli

Fonte

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giovedì 12 aprile 2018

Terremoto Marche, nelle casette crollano i pensili antisismici

La Protezione civile: "Montati male". Oggi vertice straordinario. La protesta: "Il commissario ha messo fuorilegge le casette di legno. Ma lì nessun problema"

 

 

Macerata, 11 aprile 2018 - "Perché i pensili sono crollati? Perché sono stati montati male. Chiederò che siano rinforzati in tutte le casette, ne abbiamo consegnate 1.403. Sto facendo una circolare. Devono essere montati meglio. Mobilio e pensili vanno ancorati in modo sicuro alla struttura portante. Cinque-sei episodi tra cucine e bagno? Sì, direi che il numero è congruente con le segnalazioni. Personalmente ne ho verificati due". David Piccinini, geologo, responsabile della Protezione civile marchigiana, chiude una giornata di fuoco con un’idea chiara in testa: oggi vertice d’urgenza, saranno ricontrollate tutte le Sae.

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Un geometra che vive in una casetta con le ruote proprio nell’epicentro, a Muccia – è sua, comprata per 8mila euro –, alle 7 del mattino innesca la miccia. I social sono già affollati di paure e pensieri. Lui posta tre foto, nella prima si vede una cucina sottosopra, i pensili staccati dal muro e rovinati sull’acquaio, posate a terra. Didascalia diretta come un missile: "Sae arredate da 2-3.000 euro/mq alla prima scossa importante. Vergogna". Nel secondo scatto e nel terzo stavolta i pensili sono proprio a terra, "provate a immaginare se fosse successo con bambini già alzati", si rabbuia lui. È talmente incredibile che per un po’ pare una bufala. Invece è proprio vero, succede a Pieve Torina (Macerata). Dove crolla anche un muro di contenimento. Ma come, le casette di Stato antisismiche? Quelle costate in media 2.700 euro al metro quadro, nei conti certosini dell’ingegner Roberto Di Girolamo, un secchione. Da Camerino si è studiato atti e delibere arrivando a quella media, lavori di urbanizzazione compresi. Il vero nodo di tutto.
 Risultati immagini per terremoto casette crollano pensili

"Me so rotto li coglioni!!!", posta intanto Fabrizio Capitani da Costafiore di Muccia, commento in rete alle foto del bagno, un mobile si è staccato di netto dalla parete della casetta, ecco il particolare del cartongesso bucato. «Un caso su 298 Sae montate», sdrammatizzano al Cns, il Consorzio di cooperative arrivato primo nell’appalto Consip. "Tre casi su 208", fanno eco da Arcale, la ditta toscana che ha lavorato a Pieve Torina. "Il mobiletto era appeso al muro a un metro e mezzo da terra, è venuto giù. Per fortuna non c’era nessuno in quel momento", ancora non ci crede Capitani. Rifa i conti: "È successo anche a mia zia. A un mio vicino si è staccato un tassello".
I comitati dei terremotati hanno idee diverse. Francesco Pastorella, che coordina tutti i gruppi del centro Italia, dice che il problema ora "è questo nuovo terremoto. Una gran botta. Si sono rotti gli acquedotti e lesionate un’altra volta case che avevano avuto danni lievi". Diego Camillozzi - ‘La terra trema, noi no’ - invece affonda: «Il commissario De Micheli si preoccupava tanto delle casette di legno che si sono pagati e costruiti i privati». Messe fuorilegge da un decreto che fissa misura impossibili. «Eppure con le scosse non hanno avuto problemi – ragiona Camillozzi –. Invece nelle Sae si sono staccati i pensili e si sono piegati di nuovo anche i boiler». Gli stessi che quest’inverno sono scoppiati per il gelo, una mattina i terremotati si sono svegliati e pareva di avere delle fontane sui tetti. «Un problema annunciato – osserva il vicesindaco di Arquata Michele Franchi che ha dovuto affrontare la grana –. I tubi non erano coibentati».
Poi è arrivato il momento delle infiltrazioni, «perché certi comignoli erano stati montati male, mandavano in blocco le caldaie. Li hanno smontati e risistemati troppo in fretta e così...». Ma i problemi sono stati democratici, dalle Marche al Lazio. Per le fognature di Amatrice ma anche di Accumoli. Il sindaco Stefano Petrucci ha dovuto fare un’ordinanza, una sorta di vademecum per l’uso corretto degli scarichi. «Hanno trovato anche stracci», è incredulo. I terremotati controbattono: «La pendenza degli impianti è sbagliata». E via così: porte che si chiudono male, pavimenti gobbi, lamiere dei colmi sui tetti che si staccano per il vento (a ottobre, nel villaggio di Fonte del Campo). Ma sarà giusto scaricare tutto sulle ditte?

Fonte

Commento di Oliviero Mannucci: Caro Mattarella e cari politici non chiedetemi più di andare a votare potrei diventare violento !!!!!!

giovedì 5 aprile 2018

La Sicilia e i furbetti della legge 104. “Adozioni per andare in pensione”

Il governatore: la usano 2350 dipendenti regionali su 13 mila. Ad Agrigento 500 indagati: non avevano diritto al beneficio

https://www.tp24.it/immagini_articoli/02-06-2016/1464826192-0-furbetti-della-104-controlli-a-tappeto-nel-pubblico-impiego-in-provincia-di-trapani.png
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Che a Palermo il 40 per cento delle assenze dal posto di lavoro si registrino il lunedì, contro il 29 della media nazionale, era già emerso qualche anno fa. Così come sempre siciliano è il caso più clamoroso di abuso in nome della legge 104, con ben 500 dipendenti finiti sotto inchiesta ad Agrigento per avere usufruito, senza averne diritto, dei benefici concessi a chi ha parenti disabili. Ma adesso l’Isola segna un nuovo record, sempre legato a questa legge. E a denunciarlo è il presidente della Regione, Nello Musumeci, che ha modificato la scaletta di una conferenza stampa dedicata alle opere pubbliche sparando a zero contro i “furbetti della 104”.

Si dà il caso che il presidente sia venuto a conoscenza della storia di un dipendente che si è fatto adottare da un anziano disabile pur di andare in pensione in anticipo, uno dei privilegi cancellati negli anni scorsi di una norma che continua però a riconoscere a tutti i lavoratori 18 ore di permesso retribuito al mese, oltre che l’inamovibilità dalla propria sede di lavoro.

I numeri  
Procedura complessa l’adozione, con tanto di cambiamento di cognome e di montagne di carte da produrre. Un caso limite che però ha aperto una voragine. Così è bastato qualche calcolo per scoprire che a godere della legge sono ben 2.350 regionali su 13 mila, cioè quasi il 18 per cento del totale. Percentuale quasi uguagliata solo dal Lazio, mentre in Lombardia si ferma a poco più del 10.

Un’anomalia che, in chiave nazionale, ha registrato negli ultimi anni un’impennata, arrivando a costare alle casse dello Stato circa tre miliardi l’anno con una serie di episodi memorabili, dalle partite di calcetto ai weekend in una capitale europea, con tanto di post su Facebook. Una malattia nazionale, insomma. Che, unita alle altre cause di permesso o di assenza, produce nel settore pubblico un tasso di assenteismo del 50 per cento più alto rispetto al settore privato: 19 giorni contro 13.

Malattia più acuta nell’Isola che - per feroce contrappasso - non è ancora riuscita a dare risposte strutturali ai disabili gravi e a chi li assiste senza alcun supporto. «Faremo i nostri controlli - ha detto Musumeci - e troveremo le organizzazioni sindacali dalla nostra parte: ognuno si assumerà la responsabilità delle proprie azioni, il tempo dei giochetti, delle coperture e dei ricatti reciproci è scaduto». Il presidente minaccia di fare nomi e cognomi se i sindacati non collaboreranno. E spiega: «Abbiamo più di tredicimila dipendenti ma gli uffici della Regione non dispongono del personale che servirebbe».

Nel mirino, oltre ai 2350 “inamovibili” per assistere i parenti, ci sono anche i 2600 dirigenti sindacali, non trasferibili neanche loro. Sommati, fanno quasi 5000: 38 dipendenti su 100 che non possono essere utilizzati secondo le necessità dell’amministrazione. «Non possiamo trasferire personale da un ufficio all’altro oltre i cinquanta chilometri - aggiunge Musumeci - e tra due anni andranno in pensione altri tremila dipendenti». Mancano tecnici, esperti di economia, progettisti, tutte figure necessarie a far marciare la macchina dei finanziamenti statali e comunitari. I concorsi pubblici sono bloccati da anni. In compenso all’Assemblea regionale siciliana, il parlamento autonomo della Regione, ogni parlamentare ha avuto in dote un budget di 58.400 euro senza alcun tetto alle assunzioni di esterni. L’infornata di portaborse è già stata servita.

Fonte

Commento di Oliviero Mannucci: La solita "paraculite" di alcuni a scapito di molti. La solita italietta di quelli che si credono furbi, e invece sono solo delle teste di minchia, per dirla alla siciliana.

sabato 17 marzo 2018

INGROIA INDAGATO

L'ex pm Antonio Ingroia indagato per peculato. Su delega della Procura i finanzieri del nucleo di Polizia economico-finanziaria di Palermo hanno sequestrato oltre 150.000 euro a Ingroia e a Antonio Chisari, all'epoca dei fatti, rispettivamente, amministratore unico e revisore contabile della società partecipata regionale Sicilia e Servizi spa (oggi Sicilia Digitale spa). Entrambi sono indagati per una duplice ipotesi di peculato. Il provvedimento di sequestro preventivo è stato emesso dal gip del Tribunale del capoluogo su richiesta della locale Procura. Le contestazioni mosse agli indagati traggono origine dalla natura riconosciuta alla Sicilia e-Servizi spa di società in house della Regione e dalla conseguente qualifica di incaricato di pubblico servizio rivestita da entrambi.
Ingroia, in particolare, dapprima liquidatore della società (dal 23 settembre 2013), è stato successivamente nominato amministratore unico dall’assemblea dei soci (carica che ha ricoperto dall’8 aprile 2014 al 4 febbraio 2018). "Le indagini hanno consentito di accertare che il 3 luglio 2014 - spiegano le Fiamme gialle - Ingroia si è autoliquidato circa 117.000 euro a titolo di indennità di risultato per la precedente attività di liquidatore, in aggiunta al compenso omnicomprensivo che gli era stato riconosciuto dall’assemblea, per un importo di 50.000 euro". L'autoliquidazione del compenso ha determinato un abbattimento dell’utile di esercizio del 2013 da 150.000 euro a 33.000 euro.

 
"La violazione della normativa nazionale e regionale in materia di riconoscimento delle indennità premiali ai manager delle società partecipate da Pubbliche Amministrazioni - dicono ancora dal Comando provinciale della Guardia di finanza di Palermo - è stata avallata dal revisore contabile, Chisari, il quale, in base alla disciplina civilistica, avrebbe dovuto effettuare verifiche sulla regolarità dell’operazione".
Ingroia si sarebbe, inoltre, indebitamente appropriato di ulteriori 34.000 euro, a titolo di rimborso spese sostenute per vitto e alloggio nel 2014 e nel 2015, in occasione delle trasferte a Palermo per svolgere le funzioni di amministratore, nonostante la normativa nazionale e regionale, chiarita da una circolare dell’assessorato regionale dell’Economia, consentisse agli amministratori di società partecipate residenti fuori sede l’esclusivo rimborso delle spese di viaggio. "Lo stesso Ingroia aveva adottato un regolamento interno alla società che consentiva tale ulteriore indebito rimborso" concludono gli investigatori. Anche in questo caso la violazione della normativa vigente è stata avallata dal revisore contabile, Chisari, indagato - in concorso con Ingroia - anche per questa seconda ipotesi di peculato.
"HO LA COSCIENZA A POSTO" - "Ho appreso dalla stampa del provvedimento emesso nei miei confronti, prima ancora che mi venisse notificato. Comunque ho la coscienza a posto perché so di avere sempre rispettato la legge, come ho già chiarito e come dimostrerò nelle sedi competenti. La verità è che ho denunciato sprechi per centinaia di milioni di euro, soldi che solo io ho fatto risparmiare, e invece sono accusato per una vicenda relativa alla mia legittima retribuzione". Così Antonio Ingroia in una nota dopo il provvedimento di sequestro.
"Ma, ripeto, dimostrerò come stanno le cose. Intanto continuo il mio lavoro di avvocato sempre con lo stesso impegno e nella stessa direzione: oggi sono in udienza a Reggio Calabria, nel processo 'Ndrangheta stragista, come avvocato di parte civile delle famiglie dei carabinieri Fava e Garofalo uccisi nel 1994 dalla mafia e dalla 'Ndrangheta, vicenda collegata con la trattativa Stato-mafia”, continua l'ex Procuratore aggiunto di Palermo.

Fonte

giovedì 8 marzo 2018

Astensionellum, quando la politica non ti rappresenta

“Abbiamo vinto. E daje”. Anno di grazia 2020, tarda primavera. In un Italia che (ancora) non esiste e con una legge elettorale tutta nuova, soprannominata l’Astensionellum, mentre i tg snocciolano i dati delle elezioni, gli opinionisti ripetono i loro vuoti sermoni e non si trova uno straccio di politico da portare davanti alle telecamere per un commento a caldo sulla debacle dei seggi elettorali andati deserti, il nostro non elettore esulta. Il non partito del non voto ha superato ogni pronostico. Altro che il 27,75 per cento della tornata del 2013! O il 35 per cento del 2018. Lo stivale intero è ad un soffio dal superare il clamoroso dato della consultazione siciliana di alcuni anni prima, quando il 53,24%, un elettore sue due, aveva disertato le urne.

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“Stavolta il non governo la facciamo noi”, ripete incredulo il non elettore (chiamiamolo Battista l’astensionista). Quello che per anni aveva dovuto sorbirsi i predicozzi un tanto al chilo sul voto utile, quello a cui avevano detto, “guarda che così vincono gli altri”, “guarda che poi non avrai diritto di lamentarti,” “guarda che…”, va alla finestra, inutilmente trattenuto dai familiari, urla frasi sconnesse sulla “grande non partecipazione popolare” e stappa lo spumante messo in fresco la sera prima. “Vota e turati il naso? Col cazzo! Turatevelo voi adesso”.

Davanti allo schermo l’infografica sulle nuove Camere è implacabile. Non lascia adito a dubbi: dei 630 seggi a Montecitorio ce ne sono da distribuire meno di 300, al Senato non va meglio, i 315 sono diventati 150. Ad indicare le poltrone che resteranno vuote tanti quadratini grigi. Una prateria di quadratini grigi. La democrazia delle assenze ha vinto. Finora a mancare erano gli elettori, adesso pure gli eletti. Il cerchio si chiude. I peones (e non solo loro) rimasti col culo a terra minacciano di rivolgersi alla Corte Costituzionale, “che diamine! si tratta di diritti acquisti in fondo”, tuona un loro improvvisato portavoce.



Per la nuova legge elettorale avevano dovuto mettere mano alla Costituzione, articoli 56 e 57. “Il numero dei deputati non può essere superiore a 630… Dal computo complessivo dei seggi da assegnare verrà sottratta proporzionalmente la percentuale di astensione che superi il 10 per cento, ritenuto fisiologico”. Comprensibile a tutti. Più del Rosatellum sicuramente.
Una rivoluzione copernicana. Ci si era arrivati dopo un intenso e accalorato dibattito in cui si era perfino affacciata l’ipotesi, fortunatamente scartata, di rendere obbligatorio il voto e punire l’astensionismo con una multa salatissima o, in alternativa, con pene corporali.
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Sul finire prematuro di una legislatura che aveva visto all’opera, prima la nuova risicata maggioranza FI-Pd e poi l’unità nazionale FI-Pd-LeU, con la non sfiducia di Lega e M5S e l’opposizione solitaria di Potere al Popolo, si era approdati al conteggio a segno negativo dell’astensionismo. La democrazia italiana pencolava paurosamente e quella soluzione dolorosa - qualcuno l’aveva definita la cura omeopatica - era parsa ai più (capo dello Stato in testa) l’unica in grado di salvare il salvabile. E poi c’era un’assordante rumore di sciabole. Anzi di idranti. Forti dell’ultimo Rapporto sul benessere equo e sostenibile dell’Istat che li piazzava al primo posto nell’indice di fiducia degli italiani, i vigili del fuoco reclamavano per loro gli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama, ovviamente, senza passare per l’inutile e logoro rito delle urne.

Qui finisce il divertissement e veniamo alla realtà di un paese dove si dice messa nelle chiese vuote. La democrazia, in assenza di istituzioni che si appoggino davvero sul voto popolare, è diventata parola vuota, carosello per le élite. Oddio, élite: a scorrere le liste elettorali si trovano mestieranti, pregiudicati, attori e attrici, arrivisti di ogni risma, eccellenze del nulla ed esperti nell’arte antica del poggiaculo, portavoce, portaborse o semplici lacchè.
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Chi oggi discetta contrito sull’astensionismo dovrebbe pure ricordarsi che da diversi anni l’elettore (of course, quello consapevole) viene considerato un impiccio. Un po’ come quei presidi che pensano che la scuola andrebbe molto meglio se non ci fossero gli studenti, il ceto politico ha alimentato l’astensionismo (ci ricordiamo Giorgio Napolitano che in occasione del referendum sulle trivelle ha sostenuto, senza il minimo imbarazzo, che non votare era “il diritto di ogni cittadino”?), salvo poi lamentarsene nei salotti televisivi, quando, come sta accadendo, questo tracima dall’ambito referendario, investe le elezioni politiche e amministrative e supera i livelli di guardia, mostrando a tutti la scandalosa verità di un re nudo e pure deforme: la rappresentanza non rappresenta nessuno, al più una esigua minoranza.

Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera mette il dito nella piaga delle “promesse impossibili” dei vari partiti, però alla fine ritiene che in questa tornata elettorale “la maggioranza andrà ancora alle urne”. Riflesso pavloniano dell’elettore? Sempre sul Corrierone Giuseppe De Rita ammette che “i richiami al senso civico non bastano più” e che sarebbe, invece, utile “far maturare qualche vena nuova di obiettivi”. Facile a dirsi! E con chi poi se il disinteresse dei cittadini è esattamente il risultato del cibo rancido che esce dalle cucine degli psuedo
partiti?

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Sono più di venticinque anni ormai che il nostro Paese è alle prese con sistemi elettorali che comprimono la rappresentanza in nome del falso mito della governabilità, il tutto condito da liste bloccate che paracadutano in parlamento famigli e fedelissimi del leader di turno. Ebbene, forse sarebbe ora di comprimere non la rappresentanza con artifizi il più delle volte incostituzionali, bensì i rappresentanti. E il conteggio a segno negativo dell’astensionismo nella ripartizione degli scranni può rappresentare una possibile soluzione.

Il non partito del non voto è un gioco, ma può essere utile per ricostruire quel rapporto elettore-eletto che è andato pericolosamente in corto circuito con la fine della mai troppo rimpianta prima repubblica. Un cortocircuito che nemmeno i Cinque stelle - quelli che dovevano aprire il parlamento come una scatola di tonno (o erano sardine?) - sono riusciti a sanare, intrappolati da troppe promesse, parecchia ignoranza e molte furbizie. Gli alti lai sulle forze antisistema (quale sistema?) servono a poco, sono, niente più che ipocrisia spicciola e gioco di specchi. Se è vero che il non voto interroga l’incapacità della politica tutta di costruire una narrazione credibile e risposte altrettanto credibili, la prima a farse carico, a pagarne il prezzo, dovrebbe essere la politica medesima. D’altronde se un numero sempre più crescente di italiani ritiene che non vi sia una offerta politica degna di rappresentarlo, nemmeno per approssimazione, logica vuole che gli scranni corrispondenti a quella (non) scelta restino vuoti.

Lo choc determinato dall’Astensionellum può riportare la politica ad interrogarsi sul suo rapporto con la rappresentanza. Ottimista? Forse, in ogni caso se così non fosse servirebbe comunque a ridurre i costi della politica ben più delle tante proposte che sono state avanzate in questi anni. A cominciare dal fallito colpo di mano di Renzi sul Senato che (ancora una volta!) mirava non a ridurre i senatori e i loro ricchi emolumenti ma a sottrarre i cittadini del loro diritto al voto, per finire con la demagogica e mesta storiaccia dei cosiddetti rimborsi Cinque stelle.

Insomma, un meccanismo che penalizzi proporzionalmente i partiti politici quando e se si allontanino dal loro compito di rappresentanza andrebbe pensato. Davvero. E in fretta. Perché poi la nostra malandata democrazia non è mica un divertissement.

 Giampiero Cazzato

Fonte

sabato 24 febbraio 2018

Cresce il numero delle persone intelligenti che non vuole più leggittimare chi fa promesse da marinaio!



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È una delle maggiori conquiste delle democrazie libere e moderne. Il voto è protetto dalla nostra costituzione, è un diritto inviolabile e al tempo stesso un dovere civico. Ma il numero di quanti non si recano alle urne è in crescita ovunque. Perché le persone non vanno a votare? Il fenomeno è davvero preoccupante? E soprattutto, di che portata è?
L’astensionismo è in crescita, persino dove votare è un obbligo
Il tema dell’astensionismo domina da anni il dibattito politico. Elezione dopo elezione, tornata dopo tornata, la partecipazione elettorale del popolo italiano è diminuita in maniera sostanziale. Alle prime elezioni della camera dei deputati (1948) partecipò il 92,23% del corpo elettorale, nel 2013 la percentuale era del 75,20%, per la prima volta sotto la soglia dell’80%.
Art. 48 – Costituzione – Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico. La legge stabilisce requisiti e modalità per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all’estero e ne assicura l’effettività. A tale fine è  istituita una circoscrizione Estero per l’elezione delle Camere, alla quale sono assegnati seggi nel numero stabilito da norma costituzionale e secondo criteri determinati dalla legge. Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge.
Il diritto di voto è sancito dall’articolo 48 della costituzione. Il cosiddetto elettorato attivo (l’insieme delle persone che hanno la capacità giuridica di votare) è composto da uomini e donne che hanno compiuto la maggior età. Quello che spesso si dimentica però, è che oltre ad essere un diritto, il voto è un dovere civico, che tutti i cittadini hanno.
Nonostante questo sempre più persone decidono di non partecipare, anche perché nel nostro paese votare non è obbligatorio. Ma esistono casi al mondo in cui lo è. Secondo l’International Institute for Democracy and Electoral Assistance (IDEA) attualmente al mondo sono 26 i paesi in cui i cittadini sono obbligati a votare.
Le penalità per il “non-voto” possono essere di vario tipo: I) semplice spiegazione: portare una giustificazione formale per l’astensione per evitare una possibile multa; II) sanzione pecuniaria per chi decide di non partecipare (attualmente presente in 16 paesi); III) incarceramento: al momento nessuno paese considera quest’opzione, se non come conseguenza per multa non pagata; iv) perdita di alcuni diritti e della possibilità di usufruire di servizi pubblici o rimozione dalle liste elettorali.


 Ma quali sono i risultati delle convocazioni elettorali in questi paesi? E sarebbe il caso di inserire l’obbligo anche in Italia? In realtà sia nei paesi in cui votare è obbligatorio, sia in quelli in cui non lo è, il trend dell’affluenza è in calo, anche se con quantità diverse. Mentre negli anni ’40 la percentuale di partecipazione alle tornate elettorali era per entrambi i casi poco sotto l’80%, al momento i due dati sono distanti 7 punti percentuali. Nei paesi in cui votare è obbligatorio l’affluenza è poco oltre il 70%, nei paesi in cui non lo è, è ben sotto.

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Nonostante questo, obbligatorio o no, il dato dell’astensionismo è tendenzialmente uniforme. È vero che il gap fra le due categorie di paesi è in aumento, e il calo dei votanti è più drastico negli stati in cui non c’è nessun obbligo di voto, ma costringere i cittadini a dire la loro non sembra essere la soluzione migliore per riportare le persone alle urne.
Andando a guardare le dimensioni del fenomeno nel nostro paese, grazie alla tornata che si è appena conclusa possiamo fare un po’ il punto della situazione. Si parla molto di crisi dell’elettorato, vediamo se davvero è così.
Elezioni, affluenza in calo ovunque tranne che a Roma
Le amministrative 2016 hanno fortemente rilanciato il Movimento 5 stelle, soprattutto grazie alle vittorie di Virginia Raggi e Chiara Appendino. Ma oltre al dato politico il primo elemento da constatare, per quanto scontato, è il crollo della partecipazione al voto.
Il confronto con la tornata 2011 sia al primo che al secondo turno c’è poco spazio per le interpretazioni. Al primo round si è passati dal 71,04% di cinque anni fa, al 67,42% del 2016. Discorso analogo per il secondo turno, dove si è passati dal 60,21% al 50,52%. Una notevole differenza, anche se va ricordato che nel 2011 si votò mezza giornata in più, fino a lunedì alle ore 15.
Scorporando il dato per le principali città al voto, la questione  è ancora più centrale. Se a livello nazionale solo un avente diritto su due ha votato al secondo turno, in comuni come Napoli è andata ancora peggio. Nel capoluogo campano domenica 19 giugno ha votato il 35,96% della popolazione, quasi 20 punti percentuali in meno rispetto a due settimane prima, quando andarono alle urne il 54,11% degli elettori. 5 anni fa le percentuali erano del 60,33% al primo turno, e 50,58% al secondo.

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La situazione, per quanto non così grave, è simile a Milano e Torino. Nel capoluogo lombardo la percentuale è scesa di tre punti fra il primo e il secondo turno, passando dal 54,65% al 51,80% Quando fu eletto Pisapia, in entrambi i round la percentuale era ben sopra il 67%. A Torino cinque anni fa bastò un turno per eleggere Piero Fassino, con una partecipazione del 66,53%. Nei turni delle amministrative 2016 non si è neanche raggiunto quota 60%, superando di poco il 57% il 5 giugno, e fermandosi al 54,41% domenica scorsa.
Diverso l’andamento a Roma. Qui il confronto risale a maggio 2013, quando Ignazio Marino venne eletto primo cittadino con il Partito democratico. In quell’occasione l’affluenza fu del 52,81% al primo turno, e del 45,05% al secondo. Oggi invece Roma è l’unica città in controtendenza, con il dato della partecipazione in crescita. Il 5 giugno la sfida per il Campidoglio ha coinvolto il 57,60% degli elettori romani. Al ballottaggio la partecipazione è diminuita, ma è comunque rimasta su un livello più alto rispetto alla tornata del 2013: per la sfida tra Raggi e Giachetti l’affluenza è stata del 50,46%.
Va sottolineato che il trend generale dell’affluenza a Roma è in calo (solo per fare qualche esempio, negli anni ’90 superava il 78%, e ancora nel 2008 al primo turno superava il 73%), ma la crescita rispetto al 2013 è comunque degna di nota: circa 100mila elettori in più sia al primo che al secondo turno hanno partecipato all’elezione della prima sindaca di Roma.
Ma il problema è solo italiano? Cosa succede invece nel resto d’Europa?
L’affluenza alle urne nei paesi dell’Unione europea
Prendendo Roma come esempio italiano di riferimento, abbiamo confrontato il dato dell’affluenza con quello delle principali capitali europee nelle ultime tornate per l’elezione del sindaco: Berlino, Londra, Madrid e Parigi.
In realtà è un confronto basato sui numeri è molto complicato, non tanto per la reperibilità dei dati, ma per le diverse leggi elettorali. Per esempio in Francia il diritto di voto non è legato solo al compimento della maggior età, ma anche all’essersi iscritti alle liste elettorali. 
Tuttavia alcuni numeri sono comunque utili per capire cosa succede in alcuni paesi del vecchio continente. Delle ultime elezioni comunali/municipali, la tornata che ha fatto registrare la più alta partecipazione dei cittadini è stata quella per eleggere il sindaco di Madrid nel 2015. Votò il 68,90% del corpo elettorale (ben oltre il 57,02% del primo turno di Roma quest’anno). Quattro anni prima, sempre a Madrid, la percentuale era del 67,22%.
A Berlino nel 2011 votò il 60% della popolazione, 5 anni prima la percentuale era del 58%. Più basso del dato romano quello di Parigi, anche se qui la distanza non è eccessiva. Nel 2014 al primo turno l’affluenza fu del 56,27%, nel 2008 del 56,93%.
Discorso a parte merita Londra. Come in generale nel mondo anglosassone, nella capitale del Regno Unito il tasso di partecipazione al voto è spesso molto basso, evento considerato segno di una democrazia “matura”. Sia nelle recenti elezioni, che in quelle precedenti del 2012, ha votato meno della metà della popolazione. L’elezione di Sadiq Khan il 6 maggio scorso ha portato alle urne il 45,30% dei cittadini londinesi, e 4 anni prima, quando Boris Johnson fu eletto per la seconda volta, la percentuale era del 38%.


 Proprio per la diversa natura delle tornate elettorali considerate (a Berlino i cittadini eleggono un “parlamento”, che poi a sua volta elegge il sindaco), è forse più utile confrontare il dato dell’affluenza su elezioni che hanno regole più o meno uniformi. Il caso più evidente riguarda il parlamento europeo, che è stato rinnovato nel maggio del 2014. In Italia il dato dell’affluenza è passato dal 65,05% del 2009, al 57,22%, scendendo per la prima volta sotto la soglia del 60%.





Nonostante questo, il nostro paese ha registrato comunque il quinto dato dell’affluenza più alto in Europa. Meglio di noi hanno fatto solo Belgio (89,64%), Lussemburgo (85,88%), Malta (74,80%) e Grecia (59,97%). In tre di questi quattro paesi votare è però obbligatorio.
Il ciclico allarmismo per il costante calo dell’affluenza è dunque da una parte giustificato (vista la tradizione di alta partecipazione elettorale del nostro paese), ma il dato va comunque contestualizzato e messo in relazione a una situazione più generale che vede, per diversi motivi, un livello di partecipazione alle elezioni in calo, o comunque mediamente basso.
Perché le persone non vanno a votare? Le cause principali dell’astensionismo
Abbiamo visto che l’astensionismo è in crescita in molti paesi europei, ed è un trend consolidato anche nei posti dove votare è obbligatorio. Nel nostro paese se ne discute da tempo. In occasione del recente referendum sulle trivelle alcune figure istituzionali, tra cui il premier Renzi e il presidente emerito Napolitano, hanno sostenuto la legittimità del non voto, riconoscendolo come diritto di ogni cittadino. 
È perciò importante chiedersi perché i cittadini decidono di non recarsi alle urne a votare. Quali sono le motivazioni del non voto? In molti hanno cercato di rispondere a questa domanda.
Gianfranco Pasquino, ex senatore e politologo di fama, evidenzia tre cause principali dell’astensionismo: I) la tendenza a partecipare solo alle tornate elettorali ritenute più importanti: generalmente l’affluenza è parecchio più alta alle elezioni politiche che alle amministrative; II) la forte somiglianza tra proposte e idee dei vari candidati e delle diversi coalizioni, con la conseguenza che la vittoria di uno o dell’atro avrebbe uno scarso impatto sulla vita dei cittadini; III) la crisi dei partiti, i quali ormai non riescono più a mobilitare gli elettori e portarli alle urne.
In Italia la terza opzione sembra essere la più influente, con una generale sfiducia nei confronti dei partiti e delle istituzioni. Grazie alla terza edizione del Rapporto sul benessere equo e sostenibile (Bes) dell’Istat tutto questo è ancora più evidente. Lo studio ha una sezione dedicata alla politica e alle istituzioni in cui, fra le altre cose, tiene traccia della fiducia dei cittadini nei confronti di: partiti politici, parlamento, sistema giudiziario, istituzioni locali e forze dell’ordine.




Istituzioni fiducia - Bes Istat
Come si può vedere, parlamento e partiti politici dal 2011 ad oggi hanno sempre, tra le istituzioni analizzate, il punteggio medio di fiducia più basso. Il dato per i partiti è leggermente in risalita fra il 2013 e il 2014, ma è la metà di quello relativo a sistema giudiziario e istituzioni locali, e quasi tre volte inferiore a quello delle forze dell’ordine.

 Fiducia Istituzioni - Bes Istat



Inoltre un terzo delle persone intervistate (di età superiore ai 14 anni), dichiara di non avere nessuno tipo di fiducia nei confronti dei partiti politici. Mentre il 22,5% delle persone non ha fiducia nel parlamento, e il 16,9% nel il sistema giudiziario. A livello territoriale i dati sono più o meno sempre gli stessi.
Fiducia istituzioni - territorio - Bes Istat
La fiducia dei cittadini verso il parlamento, il sistema giudiziario e i partiti politici è bassa in tutto il territorio nazionale, ma è un po’ più bassa al nord rispetto al mezzogiorno. Viceversa, la fiducia nelle Forze dell’ordine, nei Vigili del fuoco e nei governi locali è più bassa nel Mezzogiorno e leggermente più elevata al Nord“, si legge nel rapporto Bes 2015.
È evidente, quindi, che nonostante le cause del non voto possano essere tante, e persino legittime, in Italia il clima di sfiducia nei confronti dell’istituzioni ha un peso notevole nella questione. In un paese che storicamente ha avuto un tasso di partecipazione elettorale relativamente alto, non dovrebbe sorprendere che il vero crollo dell’affluenza sia avvenuto dopo lo scandalo Tangentopoli e la fine della prima repubblica.
Affluenza e astensionismo: come e perché cresce il partito del non voto
Nonostante votare in Italia sia un dovere civico, sempre più persone decidono di non partecipare. Anche nei paesi in cui questo dovere è stato formalmente impostato come obbligo, il partito del non voto è in crescita. Nel resto dell’Unione europea, sia nelle elezioni che coinvolgono tutto l’elettorato (come quelle per il parlamento europeo), che in quelle locali, i numeri sono in linea con quelli del nostro paese, se non addirittura peggio.
La notizia dunque non è tanto il basso livello di partecipazione, ma la ragione per cui gli italiani decidono di non votare. Il calo dei numeri è coinciso con lo scandalo Tangentopoli e l’inizio della seconda repubblica. Fino all’inizio degli anni 90 il tasso di partecipazione era poco sotto il 90% (nel 1992 votò ll 87,35%), nel 1996 si è scesi all’82,80%, fino ad arrivare al punto minimo per un’elezione politica nel 2013, quando andò alle urne solo il 75,20% degli elettori.
Più che in altri paesi il tema della sfiducia nei confronti delle istituzioni contribuisce ad allontanare i cittadini dalle urne. Le ultime elezioni a Roma in qualche modo ne sono una prova. La capacità di Virginia Raggi di presentarsi come volto nuovo ha portato più persone alle urne rispetto all’ultima tornata: un dato in controtendenza con il resto del paese.

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