IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO

sabato 24 febbraio 2018

Cresce il numero delle persone intelligenti che non vuole più leggittimare chi fa promesse da marinaio!



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È una delle maggiori conquiste delle democrazie libere e moderne. Il voto è protetto dalla nostra costituzione, è un diritto inviolabile e al tempo stesso un dovere civico. Ma il numero di quanti non si recano alle urne è in crescita ovunque. Perché le persone non vanno a votare? Il fenomeno è davvero preoccupante? E soprattutto, di che portata è?
L’astensionismo è in crescita, persino dove votare è un obbligo
Il tema dell’astensionismo domina da anni il dibattito politico. Elezione dopo elezione, tornata dopo tornata, la partecipazione elettorale del popolo italiano è diminuita in maniera sostanziale. Alle prime elezioni della camera dei deputati (1948) partecipò il 92,23% del corpo elettorale, nel 2013 la percentuale era del 75,20%, per la prima volta sotto la soglia dell’80%.
Art. 48 – Costituzione – Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico. La legge stabilisce requisiti e modalità per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all’estero e ne assicura l’effettività. A tale fine è  istituita una circoscrizione Estero per l’elezione delle Camere, alla quale sono assegnati seggi nel numero stabilito da norma costituzionale e secondo criteri determinati dalla legge. Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge.
Il diritto di voto è sancito dall’articolo 48 della costituzione. Il cosiddetto elettorato attivo (l’insieme delle persone che hanno la capacità giuridica di votare) è composto da uomini e donne che hanno compiuto la maggior età. Quello che spesso si dimentica però, è che oltre ad essere un diritto, il voto è un dovere civico, che tutti i cittadini hanno.
Nonostante questo sempre più persone decidono di non partecipare, anche perché nel nostro paese votare non è obbligatorio. Ma esistono casi al mondo in cui lo è. Secondo l’International Institute for Democracy and Electoral Assistance (IDEA) attualmente al mondo sono 26 i paesi in cui i cittadini sono obbligati a votare.
Le penalità per il “non-voto” possono essere di vario tipo: I) semplice spiegazione: portare una giustificazione formale per l’astensione per evitare una possibile multa; II) sanzione pecuniaria per chi decide di non partecipare (attualmente presente in 16 paesi); III) incarceramento: al momento nessuno paese considera quest’opzione, se non come conseguenza per multa non pagata; iv) perdita di alcuni diritti e della possibilità di usufruire di servizi pubblici o rimozione dalle liste elettorali.


 Ma quali sono i risultati delle convocazioni elettorali in questi paesi? E sarebbe il caso di inserire l’obbligo anche in Italia? In realtà sia nei paesi in cui votare è obbligatorio, sia in quelli in cui non lo è, il trend dell’affluenza è in calo, anche se con quantità diverse. Mentre negli anni ’40 la percentuale di partecipazione alle tornate elettorali era per entrambi i casi poco sotto l’80%, al momento i due dati sono distanti 7 punti percentuali. Nei paesi in cui votare è obbligatorio l’affluenza è poco oltre il 70%, nei paesi in cui non lo è, è ben sotto.

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Nonostante questo, obbligatorio o no, il dato dell’astensionismo è tendenzialmente uniforme. È vero che il gap fra le due categorie di paesi è in aumento, e il calo dei votanti è più drastico negli stati in cui non c’è nessun obbligo di voto, ma costringere i cittadini a dire la loro non sembra essere la soluzione migliore per riportare le persone alle urne.
Andando a guardare le dimensioni del fenomeno nel nostro paese, grazie alla tornata che si è appena conclusa possiamo fare un po’ il punto della situazione. Si parla molto di crisi dell’elettorato, vediamo se davvero è così.
Elezioni, affluenza in calo ovunque tranne che a Roma
Le amministrative 2016 hanno fortemente rilanciato il Movimento 5 stelle, soprattutto grazie alle vittorie di Virginia Raggi e Chiara Appendino. Ma oltre al dato politico il primo elemento da constatare, per quanto scontato, è il crollo della partecipazione al voto.
Il confronto con la tornata 2011 sia al primo che al secondo turno c’è poco spazio per le interpretazioni. Al primo round si è passati dal 71,04% di cinque anni fa, al 67,42% del 2016. Discorso analogo per il secondo turno, dove si è passati dal 60,21% al 50,52%. Una notevole differenza, anche se va ricordato che nel 2011 si votò mezza giornata in più, fino a lunedì alle ore 15.
Scorporando il dato per le principali città al voto, la questione  è ancora più centrale. Se a livello nazionale solo un avente diritto su due ha votato al secondo turno, in comuni come Napoli è andata ancora peggio. Nel capoluogo campano domenica 19 giugno ha votato il 35,96% della popolazione, quasi 20 punti percentuali in meno rispetto a due settimane prima, quando andarono alle urne il 54,11% degli elettori. 5 anni fa le percentuali erano del 60,33% al primo turno, e 50,58% al secondo.

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La situazione, per quanto non così grave, è simile a Milano e Torino. Nel capoluogo lombardo la percentuale è scesa di tre punti fra il primo e il secondo turno, passando dal 54,65% al 51,80% Quando fu eletto Pisapia, in entrambi i round la percentuale era ben sopra il 67%. A Torino cinque anni fa bastò un turno per eleggere Piero Fassino, con una partecipazione del 66,53%. Nei turni delle amministrative 2016 non si è neanche raggiunto quota 60%, superando di poco il 57% il 5 giugno, e fermandosi al 54,41% domenica scorsa.
Diverso l’andamento a Roma. Qui il confronto risale a maggio 2013, quando Ignazio Marino venne eletto primo cittadino con il Partito democratico. In quell’occasione l’affluenza fu del 52,81% al primo turno, e del 45,05% al secondo. Oggi invece Roma è l’unica città in controtendenza, con il dato della partecipazione in crescita. Il 5 giugno la sfida per il Campidoglio ha coinvolto il 57,60% degli elettori romani. Al ballottaggio la partecipazione è diminuita, ma è comunque rimasta su un livello più alto rispetto alla tornata del 2013: per la sfida tra Raggi e Giachetti l’affluenza è stata del 50,46%.
Va sottolineato che il trend generale dell’affluenza a Roma è in calo (solo per fare qualche esempio, negli anni ’90 superava il 78%, e ancora nel 2008 al primo turno superava il 73%), ma la crescita rispetto al 2013 è comunque degna di nota: circa 100mila elettori in più sia al primo che al secondo turno hanno partecipato all’elezione della prima sindaca di Roma.
Ma il problema è solo italiano? Cosa succede invece nel resto d’Europa?
L’affluenza alle urne nei paesi dell’Unione europea
Prendendo Roma come esempio italiano di riferimento, abbiamo confrontato il dato dell’affluenza con quello delle principali capitali europee nelle ultime tornate per l’elezione del sindaco: Berlino, Londra, Madrid e Parigi.
In realtà è un confronto basato sui numeri è molto complicato, non tanto per la reperibilità dei dati, ma per le diverse leggi elettorali. Per esempio in Francia il diritto di voto non è legato solo al compimento della maggior età, ma anche all’essersi iscritti alle liste elettorali. 
Tuttavia alcuni numeri sono comunque utili per capire cosa succede in alcuni paesi del vecchio continente. Delle ultime elezioni comunali/municipali, la tornata che ha fatto registrare la più alta partecipazione dei cittadini è stata quella per eleggere il sindaco di Madrid nel 2015. Votò il 68,90% del corpo elettorale (ben oltre il 57,02% del primo turno di Roma quest’anno). Quattro anni prima, sempre a Madrid, la percentuale era del 67,22%.
A Berlino nel 2011 votò il 60% della popolazione, 5 anni prima la percentuale era del 58%. Più basso del dato romano quello di Parigi, anche se qui la distanza non è eccessiva. Nel 2014 al primo turno l’affluenza fu del 56,27%, nel 2008 del 56,93%.
Discorso a parte merita Londra. Come in generale nel mondo anglosassone, nella capitale del Regno Unito il tasso di partecipazione al voto è spesso molto basso, evento considerato segno di una democrazia “matura”. Sia nelle recenti elezioni, che in quelle precedenti del 2012, ha votato meno della metà della popolazione. L’elezione di Sadiq Khan il 6 maggio scorso ha portato alle urne il 45,30% dei cittadini londinesi, e 4 anni prima, quando Boris Johnson fu eletto per la seconda volta, la percentuale era del 38%.


 Proprio per la diversa natura delle tornate elettorali considerate (a Berlino i cittadini eleggono un “parlamento”, che poi a sua volta elegge il sindaco), è forse più utile confrontare il dato dell’affluenza su elezioni che hanno regole più o meno uniformi. Il caso più evidente riguarda il parlamento europeo, che è stato rinnovato nel maggio del 2014. In Italia il dato dell’affluenza è passato dal 65,05% del 2009, al 57,22%, scendendo per la prima volta sotto la soglia del 60%.





Nonostante questo, il nostro paese ha registrato comunque il quinto dato dell’affluenza più alto in Europa. Meglio di noi hanno fatto solo Belgio (89,64%), Lussemburgo (85,88%), Malta (74,80%) e Grecia (59,97%). In tre di questi quattro paesi votare è però obbligatorio.
Il ciclico allarmismo per il costante calo dell’affluenza è dunque da una parte giustificato (vista la tradizione di alta partecipazione elettorale del nostro paese), ma il dato va comunque contestualizzato e messo in relazione a una situazione più generale che vede, per diversi motivi, un livello di partecipazione alle elezioni in calo, o comunque mediamente basso.
Perché le persone non vanno a votare? Le cause principali dell’astensionismo
Abbiamo visto che l’astensionismo è in crescita in molti paesi europei, ed è un trend consolidato anche nei posti dove votare è obbligatorio. Nel nostro paese se ne discute da tempo. In occasione del recente referendum sulle trivelle alcune figure istituzionali, tra cui il premier Renzi e il presidente emerito Napolitano, hanno sostenuto la legittimità del non voto, riconoscendolo come diritto di ogni cittadino. 
È perciò importante chiedersi perché i cittadini decidono di non recarsi alle urne a votare. Quali sono le motivazioni del non voto? In molti hanno cercato di rispondere a questa domanda.
Gianfranco Pasquino, ex senatore e politologo di fama, evidenzia tre cause principali dell’astensionismo: I) la tendenza a partecipare solo alle tornate elettorali ritenute più importanti: generalmente l’affluenza è parecchio più alta alle elezioni politiche che alle amministrative; II) la forte somiglianza tra proposte e idee dei vari candidati e delle diversi coalizioni, con la conseguenza che la vittoria di uno o dell’atro avrebbe uno scarso impatto sulla vita dei cittadini; III) la crisi dei partiti, i quali ormai non riescono più a mobilitare gli elettori e portarli alle urne.
In Italia la terza opzione sembra essere la più influente, con una generale sfiducia nei confronti dei partiti e delle istituzioni. Grazie alla terza edizione del Rapporto sul benessere equo e sostenibile (Bes) dell’Istat tutto questo è ancora più evidente. Lo studio ha una sezione dedicata alla politica e alle istituzioni in cui, fra le altre cose, tiene traccia della fiducia dei cittadini nei confronti di: partiti politici, parlamento, sistema giudiziario, istituzioni locali e forze dell’ordine.




Istituzioni fiducia - Bes Istat
Come si può vedere, parlamento e partiti politici dal 2011 ad oggi hanno sempre, tra le istituzioni analizzate, il punteggio medio di fiducia più basso. Il dato per i partiti è leggermente in risalita fra il 2013 e il 2014, ma è la metà di quello relativo a sistema giudiziario e istituzioni locali, e quasi tre volte inferiore a quello delle forze dell’ordine.

 Fiducia Istituzioni - Bes Istat



Inoltre un terzo delle persone intervistate (di età superiore ai 14 anni), dichiara di non avere nessuno tipo di fiducia nei confronti dei partiti politici. Mentre il 22,5% delle persone non ha fiducia nel parlamento, e il 16,9% nel il sistema giudiziario. A livello territoriale i dati sono più o meno sempre gli stessi.
Fiducia istituzioni - territorio - Bes Istat
La fiducia dei cittadini verso il parlamento, il sistema giudiziario e i partiti politici è bassa in tutto il territorio nazionale, ma è un po’ più bassa al nord rispetto al mezzogiorno. Viceversa, la fiducia nelle Forze dell’ordine, nei Vigili del fuoco e nei governi locali è più bassa nel Mezzogiorno e leggermente più elevata al Nord“, si legge nel rapporto Bes 2015.
È evidente, quindi, che nonostante le cause del non voto possano essere tante, e persino legittime, in Italia il clima di sfiducia nei confronti dell’istituzioni ha un peso notevole nella questione. In un paese che storicamente ha avuto un tasso di partecipazione elettorale relativamente alto, non dovrebbe sorprendere che il vero crollo dell’affluenza sia avvenuto dopo lo scandalo Tangentopoli e la fine della prima repubblica.
Affluenza e astensionismo: come e perché cresce il partito del non voto
Nonostante votare in Italia sia un dovere civico, sempre più persone decidono di non partecipare. Anche nei paesi in cui questo dovere è stato formalmente impostato come obbligo, il partito del non voto è in crescita. Nel resto dell’Unione europea, sia nelle elezioni che coinvolgono tutto l’elettorato (come quelle per il parlamento europeo), che in quelle locali, i numeri sono in linea con quelli del nostro paese, se non addirittura peggio.
La notizia dunque non è tanto il basso livello di partecipazione, ma la ragione per cui gli italiani decidono di non votare. Il calo dei numeri è coinciso con lo scandalo Tangentopoli e l’inizio della seconda repubblica. Fino all’inizio degli anni 90 il tasso di partecipazione era poco sotto il 90% (nel 1992 votò ll 87,35%), nel 1996 si è scesi all’82,80%, fino ad arrivare al punto minimo per un’elezione politica nel 2013, quando andò alle urne solo il 75,20% degli elettori.
Più che in altri paesi il tema della sfiducia nei confronti delle istituzioni contribuisce ad allontanare i cittadini dalle urne. Le ultime elezioni a Roma in qualche modo ne sono una prova. La capacità di Virginia Raggi di presentarsi come volto nuovo ha portato più persone alle urne rispetto all’ultima tornata: un dato in controtendenza con il resto del paese.

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giovedì 15 febbraio 2018

Scambiato per ladro e picchiato senza pietà dalla polizia: «Rifiuto le scuse»

Avellino - Nella malasorte, Tony della Pia ha almeno la fortuna di essere un personaggio pubblico e di poter denunciare pubblicamente quanto gli è accaduto: massacrato di botte dalla polizia, che lo aveva scambiato per un ladro.

Tony Della Pia
Tony della Pia

Ora ha un occhio gonfio che non riesce ad aprire e dovrà farsi ricostruire un molare. Toni Della Pia, candidato alle prossime elezioni nel collegio di Avellino per Potere al Popolo, nonostante qualche capogiro, ricorda benissimo tutti i passaggi di un pomeriggio assurdo, quando è stato scambiato dalla Polizia per un ladro e picchiato. «Stavo rientrando dal lavoro con un mio collega - racconta all’agenzia Agi - e all’altezza di Baronissi sono stato avvicinato da tre pattuglie della Polizia che mi hanno fatto accostare. Ho pensato che qualche attrezzo fosse volato dal cassone del camion e ho avuto paura di aver provocato un incidente».
Della Pia, segretario provinciale di Avellino di Rifondazione Comunista, lavora come artigiano edile e ieri pomeriggio percorreva il raccordo autostradale Avellino - Salerno. «Ho chiesto cosa fosse successo e nessuno ha risposto - prosegue - un agente ha aperto lo sportello e mi ha tirato giù dal camion. In due mi trattenevano e altri due mi davano calci, mentre una poliziotta a un metro di distanza mi puntava una pistola contro. Ho preso un calcio in faccia che mi ha fatto saltare il molare e ho un occhio pesto». Pochi istanti che a Della Pia sembrano un’eternità.
«Sentivo il mio collega trattenuto nel camion - ricorda - che urlava agli agenti di fermarsi e soltanto allora un poliziotto più anziano ha detto ai colleghi di fermarsi perché qualcosa non quadrava. E hanno verificato i documenti del mezzo e miei. Hanno capito che non ero un ladro e volevano scusarsi».
La Polizia era infatti alla ricerca di un mezzo rubato poco prima. Uno scambio di persona che però Della Pia non giustifica. «Non ho accettato le loro scuse - spiega - perché anche se fossi stato un ladro non ho avuto alcuna reazione per giustificare un’aggressione così violenta. Queste persone dovrebbero rappresentare lo Stato e invece con questi metodi fanno perdere fiducia nelle istituzioni».
Della Pia è stato poi portato in ospedale a Mercato San Severino dove è rimasto fino alle 2,30 del mattino. I medici hanno riscontrato le ecchimosi e la lesione all’arcata dentale. L’esponente politico non considera chiusa la vicenda. «Presenterò una denuncia penale e una politica - dice - perché quanto accaduto a me poteva accadere a chiunque e credo che questi abusi vadano denunciati con forza sempre».

giovedì 1 febbraio 2018

Cacciamoli via a calci nel culo, altro che voto!


                                



Elezioni 2018, il voto dei diciottenni. "La politica ci esclude"

La delusione dei ragazzi fra i 18 e i 24 anni: quasi la metà non andrà alle urne a marzo. "Non ci sentiamo parte di una comunità". Solo M5S raccoglie il loro consenso, flop Pd

 

Roma, 7 gennaio 2018 - Il presidente della Repubblica Mattarella, nel corso del suo discorso di fine anno, ha sollevato la questione dell’astensione e in particolare modo dei giovani. Effettivamente è un problema, anche se non dell’ultima ora. Dagli inizi degli anni 2000 la partecipazione dei giovani è stata sempre molto limitata in occasione delle elezioni. Però con una notevole differenza tra amministrative e politiche. Nel primo caso si registra il maggiore livello di astensione nella fascia di età tra i 18-24 anni che tocca punte anche del 65%, nel secondo invece si riduce di molto. Per esempio alle Politiche 2013 l’astensione giovanile scese al 35%, così anche al referendum costituzionale del 2016.

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Certo, non sono comunque dati incoraggianti, ma indicatori di un differente comportamento tra momenti fortemente politici (elezioni nazionali e referendum) ed eventi elettorali locali. D’altronde il problema della bassa affluenza dei giovani è un fenomeno che si è ben evidenziato anche in relazione alle primarie del Pd: mediamente il 60% dei votanti ha un’età maggiore di 50 e solo il 3% è compresa tra i 18 ed i 24 anni. Non solo. Le nuove regole che hanno permesso la partecipazione anche dei 16 e 17enni si sono rilevate un flop. I millennials hanno rappresentato solo l’1% di tutti i votanti. Detto questo è chiaro come la bassa partecipazione dei giovani costituisca un problema. Al momento, in vista delle elezioni del prossimo 4 marzo, i risultati dell’Istituto Noto Sondaggi descrivono un livello di astensione tra i 18-24enni del 45%, mentre nel totale della popolazione è ferma al 30%, quindi un differenziale di +15, non poco.

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È da notare, però, che il voto dei giovani si modella in maniera completamente differente rispetto alla popolazione più adulta. Infatti tra quei 18-24enni che hanno intenzione di andare a votare è il M5S a raccogliere il massimo del consenso: i grillini arrivano addirittura al 43%. Il secondo partito è Liberi e Uguali con il 14%, segue la Lega con il 13% e Forza Italia con il 12. Il Pd, invece, riceve solo il 10% dei voti dei giovani che sono intenzionati a recarsi alle urne. Un risultato non lusinghiero. Quindi da questi dati si evince che non è l’età del leader di partito elemento importante nell’attrazione del consenso di questo particolare profilo elettorale.

Infatti se è vero che Di Maio è appena sopra i 30 anni, è anche vero che il consenso ai pentastellati tra i giovanissimi è stato sempre molto alto, anche quando il capo indiscusso era Grillo, oggi 69enne. Così anche il voto a Liberi e Uguali è consistente pur se il leader, il presidente del Senato Pietro Grasso, ha 73 anni. Pertanto è bene sgombrare la falsa ipotesi che i giovani sono attratti dai leader coetanei. Altrimenti non ci si spiegherebbe neanche la particolare attrazione elettorale che l’81enne Berlusconi continua a esercitare sui giovanissimi.

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È anche vero, però, che sollecitare i giovani alla partecipazione elettorale non è una cosa semplice. Più che sui contenuti concreti, la partecipazione giovanile è aggregabile sull’emozione, sul sogno di cambiamento e sul sentirsi parte di una comunità. Caratteristiche in parte identificabili con il M5S che appunto aggrega circa un giovane su due che vota.
Comunque sarà il ritmo della campagna elettorale a delineare la partecipazione di chi vota per la prima volta alle prossime elezioni politiche, questo è un particolare profilo che cerca entusiasmo, anima, positività, riconoscimento sociale e sentirsi parte di una comunità. Quale partito saprà conquistare i giovani indecisi a oggi è impossibile saperlo. Per adesso nessuno.

Fonte

REGIONI, TORNANO I VITALIZI/ Stop ai tagli dei Consiglieri: ecco perché, tra Costituzione e ‘solidarietà’

Regioni, tornano i vitalizi: lo stop ai tagli dal 2018, ecco perchè tra i motivi di Costituzione e il "contributo di solidarietà". Il caso del Lazio e la sfida politica M5s-Pd

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Almeno come “slogan” ci abbandoniamo anche noi al populismo (ma solo per un attimo): dal 2018 scatta lo stop ai tagli dei vitalizi per gli ex consiglieri nelle Regioni. E già ci immaginiamo, “scandalo”, “buu”, “politici ladri”, eccetera, eccetera. Ovviamente c’è un però (senza togliere che purtroppo quegli epiteti lanciati verso la politica nostrana spesso non va così lontana dalla realtà, ndr): il contributo costituzionale per tutti i consiglieri delle Regioni nelle scorse legislature aveva ricevuto fino al 2017 un taglio, uno stop, un tetto fissato per evitare spese esose enormi per amministrazioni che spesso per concedere quei costi devono tagliare spesa importante per i cittadini, provando un risparmio deciso e andando contro l’idea di “pura casta” che troppo spesso la politica ha mostrato in questi ultimi anni. Ebbene, come riporta il Messaggero oggi, da questo gennaio è scattato lo stop a questo taglio imposto e a tutte le sforbiciate che le regioni italiane avevano posto fino allo scorso anno (un 10% che veniva tagliato per oltre 3mila consiglieri italiani) finiscono praticamente con il tornare indietro al 2014 quando si erano cominciati i “tagli”. «Sui vitalizi degli ex consiglieri (quelli in carica non ne avranno diritto) i Consigli regionali hanno fatto scattare un contributo di solidarietà. Solo temporaneo, perché se avessero abolito o tagliato definitivamente i trattamenti previdenziali avrebbero infranto la Costituzione. E il triennio di validità, appunto iniziato per molte Regioni nel 2015, scadrà nell'anno appena iniziato»: quanto scrive il Messaggero e il Gazzettino è vero, infatti il motivo per cui questi vitalizi tornano a farsi vivi è che a livello nazionale, la Costituzione li prevede e fino a che non si modifica quell’articolo, non si potrà materialmente tagliare del tutto quel contributo, a meno di particolari “mosse” come il contributo di solidarietà che per tre anni aveva almeno limitato la cifra massima di vitalizio.

IL “CASO” DEL LAZIO

Per cui bisogna attendere una “mossa” in Parlamento, e con la nuova Legislatura a questo punto, visto che le tempistiche dopo i ricorsi mossi da tantissimi ex consiglieri regionali non danno possibile l’approvazione di una nuova legge prima delle Elezioni del 4 marzo. I casi più “spinosi” si vedono intanto in Lazio e Sicilia, le due regioni che con i vitalizi hanno sfondato ogni possibile decenza nei costi e nei ricorsi effettuati per evitare il taglio delle “pensioni” dei consiglieri: in Regione Lazio è scaduto il taglio aivitalizi, e subito è montata la polemica cavalcata dai due candidati al posto di Governatore. La Lombardi (candidata M5s) attacca il Pd del presciente uscente Zingaretti, «Alla regione riaumentano i vitalizi. In caso di elezione, non li ridurremo ma li aboliremo. Poi fatemi ricorso…». Ovviamente arriva immediata la risposta di Zingaretti che prova a spiegare il perché la norma ancora non è stata approvata: «Noi siamo stati la prima giunta in Italia a cancellare i vitalizi per i consiglieri regionali quelli attuali e quelli del futuro. Per quelli che erano diritti pregressi abbiamo fatto un fondo per tagliare questi vitalizi e visto che la Corte Costituzionale non prevedeva permanente si conclude con questa legislatura ma solo ed esclusivamente per salvare il provvedimento da eventuali ricorsi che ci sono stati. È ovvio che appena si riapre la legislatura scattata il rinnovo del fondo di solidarietà quindi non c’è nessuna cosa da nasconder», ha spiegato a Radio Radio il Governatore uscente e candidato alla prossima legislatura.