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È una delle maggiori conquiste delle democrazie libere e moderne. Il voto è protetto dalla nostra costituzione, è un diritto inviolabile e al tempo stesso un dovere civico. Ma il numero di quanti non si recano alle urne è in crescita ovunque. Perché le persone non vanno a votare? Il fenomeno è davvero preoccupante? E soprattutto, di che portata è?
L’astensionismo è in crescita, persino dove votare è un obbligo
Il tema dell’astensionismo domina da anni il dibattito politico. Elezione dopo elezione, tornata dopo tornata, la partecipazione elettorale del popolo italiano è diminuita in maniera sostanziale. Alle prime elezioni della camera dei deputati (1948) partecipò il 92,23% del corpo elettorale, nel 2013 la percentuale era del 75,20%, per la prima volta sotto la soglia dell’80%.
Art. 48 – Costituzione – Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico. La legge stabilisce requisiti e modalità per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all’estero e ne assicura l’effettività. A tale fine è istituita una circoscrizione Estero per l’elezione delle Camere, alla quale sono assegnati seggi nel numero stabilito da norma costituzionale e secondo criteri determinati dalla legge. Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge.Il diritto di voto è sancito dall’articolo 48 della costituzione. Il cosiddetto elettorato attivo (l’insieme delle persone che hanno la capacità giuridica di votare) è composto da uomini e donne che hanno compiuto la maggior età. Quello che spesso si dimentica però, è che oltre ad essere un diritto, il voto è un dovere civico, che tutti i cittadini hanno.
Nonostante questo sempre più persone decidono di non partecipare, anche perché nel nostro paese votare non è obbligatorio. Ma esistono casi al mondo in cui lo è. Secondo l’International Institute for Democracy and Electoral Assistance (IDEA) attualmente al mondo sono 26 i paesi in cui i cittadini sono obbligati a votare.
Le penalità per il “non-voto” possono essere di vario tipo: I) semplice spiegazione: portare una giustificazione formale per l’astensione per evitare una possibile multa; II) sanzione pecuniaria per chi decide di non partecipare (attualmente presente in 16 paesi); III) incarceramento: al momento nessuno paese considera quest’opzione, se non come conseguenza per multa non pagata; iv) perdita di alcuni diritti e della possibilità di usufruire di servizi pubblici o rimozione dalle liste elettorali.
Ma quali sono i risultati delle convocazioni elettorali in questi paesi? E sarebbe il caso di inserire l’obbligo anche in Italia? In realtà sia nei paesi in cui votare è obbligatorio, sia in quelli in cui non lo è, il trend dell’affluenza è in calo, anche se con quantità diverse. Mentre negli anni ’40 la percentuale di partecipazione alle tornate elettorali era per entrambi i casi poco sotto l’80%, al momento i due dati sono distanti 7 punti percentuali. Nei paesi in cui votare è obbligatorio l’affluenza è poco oltre il 70%, nei paesi in cui non lo è, è ben sotto.
Nonostante questo, obbligatorio o no, il dato dell’astensionismo è tendenzialmente uniforme. È vero che il gap fra le due categorie di paesi è in aumento, e il calo dei votanti è più drastico negli stati in cui non c’è nessun obbligo di voto, ma costringere i cittadini a dire la loro non sembra essere la soluzione migliore per riportare le persone alle urne.
Andando a guardare le dimensioni del fenomeno nel nostro paese, grazie alla tornata che si è appena conclusa possiamo fare un po’ il punto della situazione. Si parla molto di crisi dell’elettorato, vediamo se davvero è così.
Elezioni, affluenza in calo ovunque tranne che a Roma
Le amministrative 2016 hanno fortemente rilanciato il Movimento 5 stelle, soprattutto grazie alle vittorie di Virginia Raggi e Chiara Appendino. Ma oltre al dato politico il primo elemento da constatare, per quanto scontato, è il crollo della partecipazione al voto.
Il confronto con la tornata 2011 sia al primo che al secondo turno c’è poco spazio per le interpretazioni. Al primo round si è passati dal 71,04% di cinque anni fa, al 67,42% del 2016. Discorso analogo per il secondo turno, dove si è passati dal 60,21% al 50,52%. Una notevole differenza, anche se va ricordato che nel 2011 si votò mezza giornata in più, fino a lunedì alle ore 15.
Scorporando il dato per le principali città al voto, la questione è ancora più centrale. Se a livello nazionale solo un avente diritto su due ha votato al secondo turno, in comuni come Napoli è andata ancora peggio. Nel capoluogo campano domenica 19 giugno ha votato il 35,96% della popolazione, quasi 20 punti percentuali in meno rispetto a due settimane prima, quando andarono alle urne il 54,11% degli elettori. 5 anni fa le percentuali erano del 60,33% al primo turno, e 50,58% al secondo.
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La situazione, per quanto non così grave, è simile a Milano e Torino. Nel capoluogo lombardo la percentuale è scesa di tre punti fra il primo e il secondo turno, passando dal 54,65% al 51,80% Quando fu eletto Pisapia, in entrambi i round la percentuale era ben sopra il 67%. A Torino cinque anni fa bastò un turno per eleggere Piero Fassino, con una partecipazione del 66,53%. Nei turni delle amministrative 2016 non si è neanche raggiunto quota 60%, superando di poco il 57% il 5 giugno, e fermandosi al 54,41% domenica scorsa.
Diverso l’andamento a Roma. Qui il confronto risale a maggio 2013, quando Ignazio Marino venne eletto primo cittadino con il Partito democratico. In quell’occasione l’affluenza fu del 52,81% al primo turno, e del 45,05% al secondo. Oggi invece Roma è l’unica città in controtendenza, con il dato della partecipazione in crescita. Il 5 giugno la sfida per il Campidoglio ha coinvolto il 57,60% degli elettori romani. Al ballottaggio la partecipazione è diminuita, ma è comunque rimasta su un livello più alto rispetto alla tornata del 2013: per la sfida tra Raggi e Giachetti l’affluenza è stata del 50,46%.
Va sottolineato che il trend generale dell’affluenza a Roma è in calo (solo per fare qualche esempio, negli anni ’90 superava il 78%, e ancora nel 2008 al primo turno superava il 73%), ma la crescita rispetto al 2013 è comunque degna di nota: circa 100mila elettori in più sia al primo che al secondo turno hanno partecipato all’elezione della prima sindaca di Roma.
Ma il problema è solo italiano? Cosa succede invece nel resto d’Europa?
L’affluenza alle urne nei paesi dell’Unione europea
Prendendo Roma come esempio italiano di riferimento, abbiamo confrontato il dato dell’affluenza con quello delle principali capitali europee nelle ultime tornate per l’elezione del sindaco: Berlino, Londra, Madrid e Parigi.
In realtà è un confronto basato sui numeri è molto complicato, non tanto per la reperibilità dei dati, ma per le diverse leggi elettorali. Per esempio in Francia il diritto di voto non è legato solo al compimento della maggior età, ma anche all’essersi iscritti alle liste elettorali.
Tuttavia alcuni numeri sono comunque utili per capire cosa succede in alcuni paesi del vecchio continente. Delle ultime elezioni comunali/municipali, la tornata che ha fatto registrare la più alta partecipazione dei cittadini è stata quella per eleggere il sindaco di Madrid nel 2015. Votò il 68,90% del corpo elettorale (ben oltre il 57,02% del primo turno di Roma quest’anno). Quattro anni prima, sempre a Madrid, la percentuale era del 67,22%.
A Berlino nel 2011 votò il 60% della popolazione, 5 anni prima la percentuale era del 58%. Più basso del dato romano quello di Parigi, anche se qui la distanza non è eccessiva. Nel 2014 al primo turno l’affluenza fu del 56,27%, nel 2008 del 56,93%.
Discorso a parte merita Londra. Come in generale nel mondo anglosassone, nella capitale del Regno Unito il tasso di partecipazione al voto è spesso molto basso, evento considerato segno di una democrazia “matura”. Sia nelle recenti elezioni, che in quelle precedenti del 2012, ha votato meno della metà della popolazione. L’elezione di Sadiq Khan il 6 maggio scorso ha portato alle urne il 45,30% dei cittadini londinesi, e 4 anni prima, quando Boris Johnson fu eletto per la seconda volta, la percentuale era del 38%.
Proprio per la diversa natura delle tornate elettorali considerate (a Berlino i cittadini eleggono un “parlamento”, che poi a sua volta elegge il sindaco), è forse più utile confrontare il dato dell’affluenza su elezioni che hanno regole più o meno uniformi. Il caso più evidente riguarda il parlamento europeo, che è stato rinnovato nel maggio del 2014. In Italia il dato dell’affluenza è passato dal 65,05% del 2009, al 57,22%, scendendo per la prima volta sotto la soglia del 60%.
Nonostante questo, il nostro paese ha registrato comunque il quinto dato dell’affluenza più alto in Europa. Meglio di noi hanno fatto solo Belgio (89,64%), Lussemburgo (85,88%), Malta (74,80%) e Grecia (59,97%). In tre di questi quattro paesi votare è però obbligatorio.
Il ciclico allarmismo per il costante calo dell’affluenza è dunque da una parte giustificato (vista la tradizione di alta partecipazione elettorale del nostro paese), ma il dato va comunque contestualizzato e messo in relazione a una situazione più generale che vede, per diversi motivi, un livello di partecipazione alle elezioni in calo, o comunque mediamente basso.
Perché le persone non vanno a votare? Le cause principali dell’astensionismo
Abbiamo visto che l’astensionismo è in crescita in molti paesi europei, ed è un trend consolidato anche nei posti dove votare è obbligatorio. Nel nostro paese se ne discute da tempo. In occasione del recente referendum sulle trivelle alcune figure istituzionali, tra cui il premier Renzi e il presidente emerito Napolitano, hanno sostenuto la legittimità del non voto, riconoscendolo come diritto di ogni cittadino.
È perciò importante chiedersi perché i cittadini decidono di non recarsi alle urne a votare. Quali sono le motivazioni del non voto? In molti hanno cercato di rispondere a questa domanda.
Gianfranco Pasquino, ex senatore e politologo di fama, evidenzia tre cause principali dell’astensionismo: I) la tendenza a partecipare solo alle tornate elettorali ritenute più importanti: generalmente l’affluenza è parecchio più alta alle elezioni politiche che alle amministrative; II) la forte somiglianza tra proposte e idee dei vari candidati e delle diversi coalizioni, con la conseguenza che la vittoria di uno o dell’atro avrebbe uno scarso impatto sulla vita dei cittadini; III) la crisi dei partiti, i quali ormai non riescono più a mobilitare gli elettori e portarli alle urne.
In Italia la terza opzione sembra essere la più influente, con una generale sfiducia nei confronti dei partiti e delle istituzioni. Grazie alla terza edizione del Rapporto sul benessere equo e sostenibile (Bes) dell’Istat tutto questo è ancora più evidente. Lo studio ha una sezione dedicata alla politica e alle istituzioni in cui, fra le altre cose, tiene traccia della fiducia dei cittadini nei confronti di: partiti politici, parlamento, sistema giudiziario, istituzioni locali e forze dell’ordine.
Come si può vedere, parlamento e partiti politici dal 2011 ad oggi hanno sempre, tra le istituzioni analizzate, il punteggio medio di fiducia più basso. Il dato per i partiti è leggermente in risalita fra il 2013 e il 2014, ma è la metà di quello relativo a sistema giudiziario e istituzioni locali, e quasi tre volte inferiore a quello delle forze dell’ordine.
Inoltre un terzo delle persone intervistate (di età superiore ai 14 anni), dichiara di non avere nessuno tipo di fiducia nei confronti dei partiti politici. Mentre il 22,5% delle persone non ha fiducia nel parlamento, e il 16,9% nel il sistema giudiziario. A livello territoriale i dati sono più o meno sempre gli stessi.
“La fiducia dei cittadini verso il parlamento, il sistema giudiziario e i partiti politici è bassa in tutto il territorio nazionale, ma è un po’ più bassa al nord rispetto al mezzogiorno. Viceversa, la fiducia nelle Forze dell’ordine, nei Vigili del fuoco e nei governi locali è più bassa nel Mezzogiorno e leggermente più elevata al Nord“, si legge nel rapporto Bes 2015.
È evidente, quindi, che nonostante le cause del non voto possano essere tante, e persino legittime, in Italia il clima di sfiducia nei confronti dell’istituzioni ha un peso notevole nella questione. In un paese che storicamente ha avuto un tasso di partecipazione elettorale relativamente alto, non dovrebbe sorprendere che il vero crollo dell’affluenza sia avvenuto dopo lo scandalo Tangentopoli e la fine della prima repubblica.
Affluenza e astensionismo: come e perché cresce il partito del non voto
Nonostante votare in Italia sia un dovere civico, sempre più persone decidono di non partecipare. Anche nei paesi in cui questo dovere è stato formalmente impostato come obbligo, il partito del non voto è in crescita. Nel resto dell’Unione europea, sia nelle elezioni che coinvolgono tutto l’elettorato (come quelle per il parlamento europeo), che in quelle locali, i numeri sono in linea con quelli del nostro paese, se non addirittura peggio.
La notizia dunque non è tanto il basso livello di partecipazione, ma la ragione per cui gli italiani decidono di non votare. Il calo dei numeri è coinciso con lo scandalo Tangentopoli e l’inizio della seconda repubblica. Fino all’inizio degli anni 90 il tasso di partecipazione era poco sotto il 90% (nel 1992 votò ll 87,35%), nel 1996 si è scesi all’82,80%, fino ad arrivare al punto minimo per un’elezione politica nel 2013, quando andò alle urne solo il 75,20% degli elettori.
Più che in altri paesi il tema della sfiducia nei confronti delle istituzioni contribuisce ad allontanare i cittadini dalle urne. Le ultime elezioni a Roma in qualche modo ne sono una prova. La capacità di Virginia Raggi di presentarsi come volto nuovo ha portato più persone alle urne rispetto all’ultima tornata: un dato in controtendenza con il resto del paese.
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