La maxi retata travolge il Veneto portando alla luce un colossale giro
di mazzette. Poco dopo l’inchiesta di Firenze dimostra che Tangentopoli
non è certo sconfitta
VENEZIA. Quella mattina a Piazzale Roma,
ad aspettare la conferenza stampa della procura, c’era perfino una tv
russa. Erano venuti per la Biennale di Venezia e alle prime notizie di
agenzia da Mosca li avevano smistati subito sugli arresti del Mose. Il
giorno dopo lo scandalo era sui giornali e le tv di mezzo mondo. Quando
si dice la rendita di posizione di cui gode Venezia. Gode si fa per
dire, nei panni del sindaco Giorgio Orsoni, che si trovò segnalato come
epicentro dello scandalo, anche se le due “onnipotenze” che lo gestivano
erano il Consorzio Venezia Nuova e la giunta regionale di Giancarlo
Galan. Per stare nel Veneto.
Come sappiamo, il 4 giugno 2014 fu il
punto d’arrivo di una frana cominciata molto prima, il 28 febbraio
2013, con l’arresto di Piergiorgio Baita, Claudia Minutillo, Ambrogio
Colombelli e Niccolò Buson per fatture false, appalti truccati e frode
fiscale. E diventata una valanga il 13 luglio 2013 con l’arresto per gli
stessi motivi di Giovanni Mazzacurati, con il sequestro del server del
Consorzio e l’acquisizione di prove che inchiodarono il Magistrato alle
Acque. Qui emerge che Piergiorgio Baita e la Mantovani non sono il perno
ma una ruota del meccanismo. Coinvolti con lo stesso grado di
responsabilità (anzi maggiore, perché Baita entra nel Cvn solo nel 2003
pagando 70 milioni a Impregilo che esce) sono le altre grandi imprese:
Mazzi, Condotte, il Coveco.
Tutti elementi che permettono il
passaggio al girone superiore, l’arresto di politici, amministratori
pubblici, professionisti, imprenditori, magistrati, dirigenti dello
Stato, ex ministri, perfino appartenenti alle forze di polizia,
ufficiali superiori della Guardia di Finanza, servizi segreti. Nello
scandalo Mose c’è la crema delle professioni liberali, l’ossatura
dell’organizzazione sociale.
Un anno dopo cosa rimane? A parte i
processi ancora aperti, nient’altro si direbbe. La classe dirigente
politica e imprenditoriale, italiana e non solo veneta, ha ingoiato il
rospo e rimosso tutto. La versione ormai data per acquisita è che i
responsabili dello scandalo Mose sono tutti identificati. I ladri del
denaro pubblico sono in carcere o sotto processo e per conseguenza,
tirando un respiro di sollievo, la corruzione è stata debellata. Meno
male. Abbiamo gli anticorpi e siamo usciti vincitori.
Poi il 16
marzo 2015 capita che la magistratura di Firenze arresti Ercole Incalza,
il superburocrate del ministero delle infrastrutture e con lui Stefano
Perotti, un ingegnere cui il primo affidava - dietro “conquibus” - la
direzione lavori di grandi opere pubbliche. Gliene contano 17. Tra
queste c’è anche la Pedemontana Veneta, in corso di realizzazione tra
Vicenza e Treviso, costo 2 miliardi e 258 milioni di euro. L’arresto di
Incalza travolge il ministro Luppi, che è costretto a dimettersi.
Tornano alla ribalta le domande troppo frettolosamente archiviate: se
Incalza è sopravvissuto a 7 governi, se il Consorzio Venezia Nuova è
passato indenne attraverso il controllo di 14 ministri delle
infrastrutture, dall’ex pm Antonio Di Pietro a Nerio Nesi e Alessandro
Bianchi di Rifondazione Comunista, chi comanda veramente nelle grandi
opere pubbliche? I politici o i supertecnici?
Nell’un caso e
nell’altro, il finale della vicenda Mose è ancora da scrivere. La classe
politica coinvolta si ferma a Giancarlo Galan, con una coda romana che
arriva solo ad Altero Matteoli. Quanto ai superburocrati, non si va
oltre gli ex presidenti del Magistrato alle Acque. E i loro referenti
romani, gli Incalza della situazione, dove sono? Qui non si parla
evidentemente di responsabilità penali. Le indagini della magistratura
hanno toccato le persone ma non i meccanismi ed è su questi che occorre
mettere le mani. Se non era compito dei magistrati farlo, a chi tocca
rimettere in carreggiata il treno deragliato delle grandi opere
pubbliche?
La domanda non è rivolta a vaghi interlocutori
nazionali. Il Veneto è pieno di grandi opere pubbliche del cui iter poco
si sa, o si fa sapere. Primo fra tutti il Mose: l’unico risultato
dell’inchiesta, lamentano le imprese, è aver bloccato i lavori. A parte
il ritardo nella consegna, rilanciano, chi ci pagherà il blocco dei
cantieri per un anno?
Si potrebbe considerarlo una specie di
“dazio” che lo Stato paga per aver dormito su sprechi e ruberie che
avrebbe dovuto vedere, uno scotto insomma da accettare, se i commissari
che hanno preso il posto di Mazzacurati riuscissero davvero a far
ripartire i lavori su binari di legalità e trasparenza. Per esempio
mettendo in fila
tutti i
contratti che il Consorzio aveva in essere e tagliando senza pietà
quelli che non sono essenziali al completamento del Mose. Inclusa l’idea che ritorna di andare a vendere il brevetto all’estero: chi lo comprerebbe dopo tutta la pubblicità negativa?
Renzo Mazzarro
Fonte
Commento Oliviero Mannucci: Ma vi rendete conto? Eppoi quando arrivano le elezioni...? Andate a votare, ci dicono loro. Col CAZZO dico io!
"LADRI D'ITALIA" E' L'ORGANO D'INFORMAZIONE DEL MOVIMENTO POPOLARE DI LIBERAZIONE NAZIONALE "CULO A STRISCE", CHE SI PREFIGGE DI MANDARE A CASA CON LE BUONE ( o con le cattive, facendogli APPUNTO, il culo a strisce) TUTTI I POLITICI CHE CAMPANO SULLE SPALLE DI MILIONI DI CITTADINI GUADAGNANDO MIGLIAIA DI EURO AL MESE PER NON FARE QUASI UN CAZZO E RENDERE LA VITA IMPOSSIBILE A CHI SI GUADAGNA LA VITA CON IL SUDORE DELLA PROPRIA FRONTE.
IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO
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