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giovedì 19 aprile 2018

Tangenti sanità Milano: storia di Renata, due volte vittima di Calori

Mentre lo scandalo delle tangenti nella sanità travolge pezzi grossi degli ospedali Pini e Galeazzi di Milano, ci sono pazienti che raccontano storie al limite dell'incredibile. Tra questi c'è anche una giornalista di Osservatorio Diritti, Renata Fontanelli. Che ha deciso di mettere nero su bianco cosa le è successo col professor Giorgio Maria Calori

L’ultimo scandalo sanità scoppiato a Milano una settimana fa sembra essere solo all’inizio. Tanto che gli investigatori annunciano che potrebbe essere la punta di un iceberg. Il martedì nero, lo scorso 10 aprile, è cominciato con l’arresto di un imprenditore nel settore di apparecchiature elettromedicali, Tommaso Brenicci, e di cinque pezzi grossi del Servizio sanitario nazionale italiano. Giorgio Maria Calori, primario, Paola Navone, direttore sanitario, Carmine Cucciniello, direttore del dipartimento di ortopedia. Tutti e tre dipendenti del Gaetano Pini. Con loro anche Lorenzo Drago e Carlo Luca Romanò, responsabili del laboratorio di analisi uno e del centro di chirurgia ricostruttiva l’altro, entrambi del Galeazzi.

 

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I quattro primari agli arresti domiciliari: in alto Carmine Cucciniello e Giorgio Maria Calori del Cto-Gaetano Pini, sotto Carlo Romanò e Lorenzo Drago del Galeazzi

 

Si tratta di due tra gli ospedali più quotati in Italia. Gli indagati sono tutti ai domiciliari, tranne Brenicci che è in carcere. Pesanti le accuse, tutte respinte venerdì 13 aprile durante il primo interrogatorio.


Tangenti sanità Milano: le accuse dello scandalo

Si va dalla corruzione alle false società costruite ad hoc per ricevere tangenti fino al mancato rispetto delle regole d’appalto, conflitto d’interessi, violazioni dei doveri d’ufficio. E non si esclude che ora possano arrivare nuovi capi d’imputazione, soprattutto per i medici.

Le difficoltà economiche del primario del Pini

Calori, che i colleghi definiscono nelle intercettazioni «avido farabutto» e che il compagno di arresti nonché collega Cucciniello, intercettato, chiama «delinquente vero», nel raccontare a un amico di quando, pur di operare e incassare, «si inventò un’infezione di sana pianta», ultimamente si sarebbe trovato in difficoltà economiche.
A causa anche di un mutuo di circa 5 mila euro per l’acquisto di un appartamento, costato 1 milione e 300 mila euro. Del fatto ne parla al telefono l’imprenditore Brenicci, dichiarando che non intende dargli i «150.000 euro per terminare i lavori». Perché?
«Se comincio a dargliene poi me ne chiede altri. D’altronde si è incasinato con quei 600 mila euro spesi per la ristrutturazione».

Il professor Giorgio Maria Calori e i diritti del malato

Il medico pare non essere molto amato al Pini, ma è assai temuto per i suoi modi autoritari e irosi. Da quello che sta emergendo dalle indagini, sembra che soldi e carriera lo interessino più dei pazienti. Ed è questa mancanza di rispetto per i diritti dei malati che ha fatto montare il caso negli ultimi giorni. Più delle tangenti, cui ormai gli italiani sembrano quasi averci fatto il callo.
I fatti più gravi, per il momento, non hanno ipotesi di reato. Pare che il professore avesse il vizio del bisturi facile. Non al Pini, ma in una struttura privata dove lavora, oltre all’ospedale. Molte al momento le denunce, tante anonime. Nessuno poi ne vuole parlare con la stampa, forse hanno paura.
Gli investigatori hanno parlato di «cupidigia», riferendosi a lui, sottolineando come «il bisogno di denaro avesse generato in lui l’inclinazione a intervenire chirurgicamente come fonte di guadagno anche quando non strettamente necessario senza rispetto alcuno per i pazienti».
È successo anche a me, e qui sotto potete leggere la storia.

Renata Fontanelli, due volte vittima di Calori

Il figlio passa da una comune patologia all’ipotesi di tumore

«Faccia uscire suo figlio dalla stanza per favore». Il ragazzino ha 12 anni e da più di un mese continua a fare analisi ed esami. Il professore sfodera l’aria di circostanza, quella che probabilmente usa con tutti quando deve dare una brutta notizia. «Signora, farei dei marcatori tumorali a questo punto. Potrebbe non esserci nulla, ma meglio andare sul sicuro».
Dal Morbo di Schlatter (fortissimi dolori alle giunture delle ginocchia) al tumore il passo non è proprio automatico, ma che ne so io? Il professore nel suo studio è venerato e temuto. È primario all’ospedale pubblico Pini, eccellenza dell’ortopedia italiana.
Al telefono, davanti a noi, chiama una ditta di plantari per annunciare il nostro arrivo e si raccomanda di consegnargli al più presto «quei biglietti in tribuna per la partita». Quei plantari mi sarebbero costati una fortuna, infatti non li ho mai ritirati. Me li sono fatti fare da un’altra parte a metà prezzo.
Il ragazzino, mio figlio, va in sala d’attesa. Sempre piena la sua anticamera, tanti vecchietti (ovviamente, è ortopedico), mamme, bambini.
Mi spiegherà poi un suo collega che l’inquietante morbo altro non è che una patologia frequente della preadolescenza dovuta a una crescita troppo veloce. Non ci sono cure se non ghiaccio e riposo.

Dove fare gli esami lo dice il primario (o almeno ci prova)

Improvvisamente però spunta l’ipotesi di un cancro e il professore indica la struttura migliore dove andare a fare i marcatori. Io dico no: «Vado dove abbiamo una convenzione», il più grosso centro di Milano. E lui risponde, seccato davvero e improvvisamente sbrigativo: «Faccia come le pare, se poi sbagliano non è un problema mio».
E così faccio: vado a fare gli esami al Centro Diagnostico Italiano. Data la giovane età del paziente viene data la massima urgenza per la consegna dei risultati. Apro la busta e non vedo asterischi. La porto dal professore in studio e la segretaria mi assicura che lui la guarderà «Non appena arriva in studio». Comincio quindi ad aspettare una sua telefonata.

La lunga attesa piena di «ansia tremenda»

Seguono tre giorni di silenzio, da parte sua. Di ansia tremenda, da parte mia. Di telefonate da amici e parenti che mi chiedono stupiti il perché io non sappia ancora nulla. E me lo chiedo anch’io per tre notti, finché prendo il telefono e lo chiamo sul cellulare.
«Sono malato, non mi disturbi». È la risposta secca, seguita dalla rassicurazione: «Appena mi riprendo vado in studio e la chiamo».
Passano altri tre giorni finché in studio ci vado io. Mi dicono che è occupato con un paziente, in realtà lo sento parlare al telefono. Una, due, tre volte. Finché un’ora e mezza dopo sono io ad aprire la sua porta e a piantarmi davanti a lui. La busta la apre davanti a me e con disprezzo mi dice: «Qui non c’è niente».

Un uomo «divorato dall’ambizione professionale ed economica»

Io perdo la calma. Lui più di me. Chiama i suoi collaboratori e chiede loro di portarmi fuori. La segretaria ha già pronta l’ultima delle tante fatture, 400 e rotti euro per le fisioterapie. Pagare e sparire.
Esco, è il gennaio 2015. Fermo la macchina ed esplodo. Di rabbia. In lacrime racconto a una mia amica l’accaduto e mi risponde: «Ma quell’uomo è fatto così, divorato dall’ambizione sia professionale che economica. A Milano lo sanno tutti». Tranne me, evidentemente.
Non l’ho più visto se non in foto qualche giorno fa, dopo la notizia dell’arresto.

Per operare la figlia Calori suggerisce la (costosa) clinica privata

E dire che avrei già dovuto capirlo qualche settimana prima, nel dicembre 2014, quando nel suo studio arrivai con mia figlia con una diagnosi dell’ospedale di Aosta di lesione dei legamenti crociati.
Operare immediatamente, dice lui, primario al Pini. Dove? In una prestigiosa clinica privata, dove lavora nel tempo libero. Chiedo un preventivo e lo porto alla Casagit (cassa autonoma giornalisti italiani), con cui Calori lavora in convenzione. Devo aggiungere 2.000 euro. Torno in studio e lui mi guarda con aria sprezzante:
«Non riesce a trovare 2.000 euro, signora? Si tratta della salute di sua figlia».
Evidentemente trasudiamo benessere. Per concludere mi congeda con un: «Fossi io nella sua situazione chiederei un prestito».
Ma se del Morbo di Schlatter non so nulla, di legamenti m’ intendo un po’ di più. Gli chiedo quindi di mettermi in lista di attesa al Pini, un mese non cambierà la sorte del ginocchio di mia figlia. E poi non credo nelle strutture private, quando in Italia gli ospedali pubblici da sempre sono eccellenze.

I suggerimenti di Paola Navone, la direttrice sanitaria del Pini

In quella lista d’attesa mia figlia non è mai entrata. Lo scoprirò dopo averlo chiesto alla direttrice sanitaria Paola Navone, anche lei ora ai domiciliari, presentatami da una comune amica. Navone sembra una persona affabile e generosa. Mi racconta che da qualche settimana deve andare in giro con la scorta e mi fa capire che Calori è uno da cui stare alla larga. Strano, dagli atti dell’inchiesta sembra fossero “soci in affari”.
Sarà qualche mese dopo un altro primario del Pini a operare mia figlia. Totalmente in Ssn (Servizio sanitario nazionale).
Oggi, solo dopo l’arresto, spuntano fatti molto più gravi. Non ci sono per il momento ipotesi di reati diretti contro pazienti, è malafede. Malcostume. Avidità, gioco sporco, perché quando si gioca con la salute altrui e si ricopre una carica pubblica più sporco di così si muore.

Effetto #MeToo: piovono le denunce

A me è andata bene, ma adesso arrivano gli altri, effetto #MeToo. Ma perché non l’hanno denunciato prima quelli che sono davvero finiti, parrebbe, sotto ai suoi ferri riportando lesioni permanenti? Perché?
I miei sono stati danni morali, maltrattamenti e forse menzogne. Ho chiamato la mia cassa di previdenza, la Casagit, segnalando il caso, ma non credo abbiano mai fatto qualcosa. Mi avevano poi suggerito di fare un esposto all’Ordine dei Medici. Ma a quel punto io del prof Calori non volevo più sentir parlare.

Renata Fontanelli

Fonte

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