Olafur Hauksson
dà la caccia a una tipologia peculiare di banditi: i banchieri. Lo fa
in quel di Reykjavik, capitale di quell'Islanda fino al 2008 nota
soltanto per i geyser e per l'estate più breve di uno starnuto. Poi,
d'improvviso, il virus dei mutui subprime e il crollo di Lehman Brothers
arrivarono anche tra i ghiacci. E un Paese con 325mila abitanti, poco
più del quartiere milanese di Quarto
Oggiaro, scoprì di dover fare i conti col fallimento di tre banche il cui valore equivaleva - fino al crac - a quasi il 1.000% del Pil. Un disastro nazionale, servito in diretta tv dal primo ministro dell'epoca, Geir Haarde, con un «Dio salvi l'Islanda».
Oggiaro, scoprì di dover fare i conti col fallimento di tre banche il cui valore equivaleva - fino al crac - a quasi il 1.000% del Pil. Un disastro nazionale, servito in diretta tv dal primo ministro dell'epoca, Geir Haarde, con un «Dio salvi l'Islanda».
In effetti, a
oltre quattro anni da quello che sembrava un crac ineluttabile, l'isola a
metà strada tra Groenlandia e Gran Bretagna è quasi salva. Quasi,
perchè la crisi non è ancora al capolinea. Se i due miliardi di dollari
messi a disposizione nel novembre del 2008 dal Fmi avevano garantito
l'immediata sopravvivenza, per risalire la china gli islandesi hanno
adottato una ricetta autoctona priva di quegli ingredienti tossici
somministrati a più riprese alla Grecia, ma anche a Italia, Spagna e
Portogallo, dai cuochi dell'austerity. Loro, invece, hanno subito
nazionalizzato i tre maggiori istituti di credito, Kaupthing, Glitnir e
Landsbanki, mettendo alla porta i top manager con bonus incorporato;
poi, la cosiddetta «rivoluzione delle pentole» ha mandato a casa il
governo e l'intero Parlamento. Ottenendo un altro, invidiabile,
risultato: oggi l'Islanda è guidata da sole donne. Quote rosa al cubo.
Sul Paese,
tuttavia, pesa da qualche anno la peggiore delle accuse: quella di «non
aver onorato i debiti». Di aver cioè fatto default senza pagarne dazio.
In effetti, i creditori esteri delle banche finite sotto l'ala statale
non hanno ancora rivisto un centesimo. «In futuro risarciremo tutto», ha
garantito il ministro Steingrímur Sigfússon. Che, qualche giorno fa, ha
però incassato dalla corte dell'Efta (European free trade agreement) la
decisione benevola secondo cui l'isola non deve risarcire i
risparmiatori britannici e olandesi che avevano investito nei conti
Icesave, una controllata di Landsbanki. È una sentenza che vale, per le
casse islandesi, 2,6 miliardi. Ossigeno puro.
Non tutto è
però stato risolto. Al Paese servono ancora misure di stimolo economico.
E poi c'è una popolazione irritata per gli scarsi successi ottenuti
nella caccia ai colpevoli del disastro finanziario. Per ora, poche le
condanne inflitte: quattro anni e mezzo a due ex dirigenti della banca
Byr; due anni all'allora direttore del ministero delle Finanze; un
risarcimento di 3,2 milioni di euro pagato dall'ex presidente di
Kaupthing. L'ex premier Geir Haarde se l'è cavata: niente carcere nè
sanzioni pecuniarie pur essendo stato ritenuto colpevole di non aver
informato i ministri sulle difficoltà finanziarie.
Catapultato da
un paesino di pescatori alla capitale, dove guida un team con più di 100
collaboratori, il Marshall in salsa islandese Olafur Hauksson ammette
di essere frustrato per i risultati raggiunti. Ma il problema, aggiunge,
è che «perseguire i banchieri non è facile perchè spesso la legge non è
chiara su ciò che è reato nell'alta finanza. E trovare le prove di una
frode non è facile». Ma Olafur deve guardarsi anche le spalle: due suoi
ex collaboratori sono indagati per aver intascato circa 200mila euro in
cambio di informazioni riservate offerte all'amministratore di una
società in bancarotta. È proprio vero: il denaro non dorme mai.
Commento di Oliviero Mannucci: Ben fatto! Ora spero si faccia anche in Italia!
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