Oggi 1° maggio dovrebbe essere la giornata del lavoro. Ma quale, viene da dire? E allora precisiamo: è la festa del lavoro che non c’è.
E quando c’è è precario, occasionale, al nero. Impieghi privi di
diritti e tutele, quando appunto si può parlare di impiego visto che
viviamo in un Paese con oltre 3 milioni di disoccupati e dove i giovani
senza occupazione sono il 38,4% del totale. Un mercato sconvolto con
tante, troppe persone costrette al ricatto.
Sembrano passati millenni da quando i padri fondatori misero nero su bianco la Costituzione scrivendo all’articolo 1 «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei
limiti della Costituzione». Va bene repubblica, qualche dubbio sul
termine democratica, una messe di interrogativi sull’espressione
«sovranità popolare», sconforto assoluto relativamente al termine
lavoro. No, signori non ci siamo proprio. Il primo maggio di quest’anno non riesce ad essere una festa. Lo ha scritto anche il Presidente Napolitano
nel suo tradizionale messaggio: «Purtroppo, oggi, c’è da pensare anche
al lavoro che non c’è, al lavoro cercato inutilmente, al lavoro a
rischio e precario. Abbiamo il dovere politico e morale di concentrarci
su questi problemi».Un messaggio-appello inviato al ministro del Lavoro e
delle Politiche sociali, al presidente della federazione maestri del
Lavoro d’Italia, ai segretari generali di Cgil, Cisl, Uil e Ugl.
E proprio ai sindacati mi rivolgo:
quando andrete oltre la difesa di chi il lavoro ce l’ha già e vi
batterete con altrettanta tenacia anche per chi il lavoro non l’ha mai
avuto oppure l’ha perso, perché questo Paese ha deciso che l’austerità è
meglio della crescita? Tanto i sindacati hanno fatto nel corso dei
decenni per veder riconosciuti diritti che dovrebbero essere
inalienabili, ma la sfida adesso è un’altra: occorre difendere i senza
lavoro, quelli che non sono iscritti nelle liste, quelli che stanno
perdendo la fiducia, quelli che l’hanno già persa, quelli che nessuno
vuole ascoltare, quelli che certi considerano fuori mercato. Perché
l’Italia è fatta di questi “ultimi” che lo sono diventati anno dopo
anno, bruciando risorse personali, spendendo le proprie vite. Va bene
organizzare cortei di cassaintegrati ma facciamo anche manifestazioni a
sostegno dei disoccupati e degli inattivi.
Alle istituzioni è difficile potersi rivolgere.
Quelle locali non hanno più fondi e chiamano in causa lo Stato
centrale. Il Palazzo romano poi è troppo distante dalla realtà, una
torre d’avorio dove in troppi sono sordi, ciechi e muti, miglia e miglia
distanti dalla quotidianità.
Il dubbio atroce perciò si insinua:
ha ancora senso celebrare una festa nel momento in cui il lavoro
scarseggia e va finendo e intere famiglie devono fare i conti con una
durissima crisi, la disoccupazione e spesso la povertà? Il coraggio non
manca, quello che sfugge invece è il senso. Di una festa segnata in
rosso sul calendario, della parola «lavoro» sempre più svuotata di
sostanza e riempita di rabbia, rancore, dolore, rimpianto, illusione.
Mi ha colpito la frase di uno dei tanti
disoccupati italiani: «Mi devastano ma non mi uccideranno». Ha ragione
Martino, il lavoro permette di mangiare ma la speranza aiuta a
sopravvivere.
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