Conosciuta
come la "madre di tutte le tangenti", la vicenda legata a Raul Gardini
ed all'Enimont contribuì al crollo della “Prima Repubblica” e potrebbe
aver avuto dei risvolti oscuri non del tutto indagati a fondo. Compreso
il ruolo di Gladio

Quando si abbattè la tempesta mediatico-giudiziaria di “
Tangentopoli”
che scosse fin dalle fondamenta il mondo politico, industriale e
finanziario italiano, alla fine degli anni ’80, le classi di potere del
Belpaese stavano facendo i conti, per la prima volta, con la necessità
di ridurre la sovranità dello Stato nell’economia, la messa in
discussione dell'allocazione delle risorse pubbliche, la necessità di
inasprire la pressione fiscale per contenere il debito pubblico e con
l’adeguamento delle norme italiane alle direttive ed ai regolamenti
europei approvati a partire dal
Consiglio d’Europa di Milano
del 28 e 29 giugno 1985, nel quale venne decisa la road map
franco-tedesca per emendare, di lì a poco, il trattato europeo. Il
ritorno dei venti di guerra, con il conflitto in Iraq del 1991, e la
fine dei regimi socialisti dell’est Europa, con l'esplosione dei
nazionalismi che di lì a poco portarono alla guerra civile in
Jugoslavia, accelerarono i tempi per l'approvazione degli accordi di
Maastricht del 1992, con i quali venne chiuso un intero capitolo della storia politica europea nata dalla guerra fredda.

Una fase storica complessa, soprattutto in Italia, che ebbe il suo climax nell’ultima legislatura della cosiddetta “
Prima Repubblica”
(1987-1992) durante la quale, mentre i partiti tradizionali vedevano
erodersi progressivamente il loro consenso, le istituzioni dello Stato
vacillavano sotto i riflettori accesi dalle inchieste giudiziarie,
fronteggiando nello stesso tempo la
grave offensiva stragista di Cosa Nostra. Persino dal vertice dello Stato, il presidente della repubblica,
Francesco Cossiga, si esibiva nell’inedito ruolo di “picconatore” della Costituzione. Un “
gioco al massacro” che portò in pochi anni ad una atmosfera di
cupio dissolvi della repubblica e che ebbe il suo apice nel
1990, con l’ammissione da parte del governo dell’esistenza di
Gladio, con il ritrovamento di una parte delle fotocopie del
memoriale di Aldo Moro, e con le
dichiarazioni di un ex agente della
CIA,
Richard Brenneke, relative al ruolo svolto dagli americani nel finanziamento delle organizzazioni terroristiche e sulle responsabilità della
P2 nell’omicidio del premier svedese
Olof Palme.
In una stagione sicuramente tra le più incandescenti della repubblica, le imprese pubbliche e le banche,
centri nevralgici dell'economia mista con la quale si era creata la
ricomposizione tra “popolo e Stato” dopo il secondo dopoguerra, erano il
vero punto dolente di un labirinto di poteri corporativi intrecciatisi tra i partiti e lo Stato,
il freno alle necessità di una ristrutturazione industriale, nonché di
una radicale riformulazione del modello di relazioni socio-economiche e
degli accordi tra “boiardi di Stato”, garantiti fino allora dalla
funzione strategica che era stata assunta dal Ministero delle Partecipazioni Statali.

La
ristrutturazione e unificazione delle società pubbliche con i privati, che procedeva dalle direttive che avevano seguito l’entrata in vigore dell’
Atto Unico Europeo, imponevano le fusioni principalmente nei settori delle
telecomunicazioni, in quello
bancario ed
investirono in pieno il settore della chimica di base, dove la
Montedison e l'
Eni
erano tra le più importanti aziende mondiali. Le due grandi istituzioni
pubbliche che negli anni '80 avevano dato il via alle privatizzazioni,
l'
Iri guidata da
Romano Prodi, e l'
Eni guidata da
Franco Reviglio,
dovettero così intervenire in un campo di battaglia che rendeva
necessaria la defenestrazione di una parte della classe dei dirigenti di
nomina politica, la quale avvenne sotto l'egida di
Giulio Andreotti, vero e proprio “principe delle tenebre” della Repubblica.
Venne alla luce così una nuova classe di affaristi rampanti,
una cricca contraddistinta, più che dall’ideologia liberale,
dall'approccio anti-privatistico che reiterava l'intervento politico, e
da una filosofia disinvolta del deficit pubblico, che puntava a
rinforzare le correnti politiche dei capibastone della DC e dei partiti del sistema politico disponibili a sponsorizzare le loro operazioni, come il PSI di Bettino Craxi, diventato nella seconda metà degli anni ’80 una figura centrale negli equilibri del sistema parlamentare.

La X legislatura (1987-1992), iniziata con il breve governo
Goria, fu caratterizzata dal “
condominio doroteo” all’interno della DC, e dalla staffetta che portò alla ribalta politica nazionale l’avellinese
Ciriaco De Mita, presidente del Consiglio fino al 22 luglio 1989, ed alla consacrazione di
Antonio Gava,
divenuto ministro dell’Interno tra lo stupore generale. Gava poi inciampò nell’ottobre del 1990 nel rinvio a giudizio per il caso del
sequestro Cirillo, mentre Ciriaco De Mita finì coinvolto con i suoi familiari nell'
Irpiniagate. A terminare la legislatura fu
Giulio Andreotti nei cui governi si affacciarono per una breve e drammatica stagione politica anche i napoletani
Francesco De Lorenzo (PLI, Ministro della Sanità), e
Vincenzo Scotti (DC, Ministro dell’Interno).

L’ultima legislatura della prima repubblica fu funestata dalle inchieste del
pool Mani Pulite
della Procura di Milano. Il clima da “ultimi giorni di Pompei”, il
tentativo di contenimento delle inchieste del pool "Mani Pulite", è
descritto efficacemente da uno dei protagonisti di quelle vicende
giudiziarie,
Luigi Bisignani, faccendiere e giornalista da sempre vicino a Giulio Andreotti ed agli
ambienti vaticani, nel suo recente libro intervista “L’uomo che sussurra ai potenti” (ed. Chiarelettere). Bisignani descrive il ruolo svolto da
Enrico Cuccia, attraverso il “salotto” di
Mediobanca, per salvare il salvabile dei poteri forti. La strategia, condotta da
Cesare Romiti, puntava a
delegittimare le inchieste della magistratura attraverso un rigido controllo dell’informazione e fu elaborata in una riunione che si tenne in presenza di
Giampiero Maranghi, amministratore delegato di Mediobanca, di
Carlo De Benedetti,
Gianni Agnelli,
Leopoldo Pirelli,
Marco Tronchetti Provera,
Giampiero Pesenti e
Carlo Sama per il gruppo Ferruzzi. A guastare la controffensiva degli industriali però fu proprio
Silvio Berlusconi,
che imbracciò le armi del giustizialismo, schierando tutto il suo
apparato mediatico per raccontare giorno per giorno l’andamento delle
inchieste, con collegamenti in diretta dal Tribunale di Milano, sulle
ultime indiscrezioni relative all’iscrizione di personalità del mondo
politico, industriale e finanziario sul registro degli indagati della
procura, mentre Lega Nord e fascisti soffiavano sul fuoco della
propaganda politica. (Luigi Bisignani, Op. Cit., pag.121-122)

Il fronte degli industriali cominciò a cedere quando le indagini lambirono il
gruppo Agnelli, con le prime ammissioni di
Antonio Mosconi, un dirigente aziendale di seconda fila, che spinsero
Romiti ad una visita-confessione dal
cardinale Martini, ripresa con grande enfasi dal
Corriere della Sera, e con la consegna di un memoriale al capo della procura di Milano,
Borrelli.
Il prosieguo delle indagini sull’Enimont ebbe dei risvolti drammatici,
con arresti eccellenti e spettacolari, il suicidio in carcere del
presidente dell’Eni,
Gabriele Cagliari, la morte di
Raul Gardini, la fine misteriosa di
Sergio Castellari fino alla scomparsa dei partiti di potere della repubblica.
L’affaire Enimont
Il tentativo di creazione di una multinazionale della chimica e degli
idrocarburi, fondendo le rispettive aziende dei settori chimici della
Montedison e dell'Eni, durò appena due anni, tra il 1988 ed il 1990,
e può ben rappresentare una delle questioni paradigmatiche delle
relazioni industriali del capitalismo all’italiana di quegli anni e
delle tensioni che agitavano la politica.

La
Montedison, dal 1987, era controllata con una
quota di maggioranza del 40% dei titoli dal
gruppo Ferruzzi, guidato dal “corsaro” di Ravenna
, Raul Gardini.
La maggioranza azionaria era stata ottenuta tramite il rastrellamento
dei titoli in borsa. L'operazione fu gestita dalla Sige del gruppo Imi,
di cui era amministratore delegato
Gianmario Roveraro, un banchiere con legami molto forti con l'
Opus Dei, e fu consentita dall’euforia determinata dagli appena nati
fondi comuni d’investimento,
nonché grazie alla fuoriuscita dei vecchi soci del “consorzio” creato
da Mediobanca per gestire la riprivatizzazione della Montedison
effettuata nel 1981, tra i quali
Agnelli,
Pirelli,
Orlando e
Bonomi, i quali non avevano condiviso la scelta di
Mario Schimberni di acquisire il
gruppo Fondiaria. Tra i nuovi soci della Montedison fecero così ingresso azionisti più spregiudicati, come
Gianni Varasi, detto “
l’uomo delle vernici”, legato al finanziere
Francesco Micheli,
Fabio Inghirami (abbigliamento) e la
Maltauro Costruzioni, con
Sergio Cragnotti nominato da Gardini amministratore delle attività finanziarie della Montedison.

- Serafino Ferruzzi
La società creata da
Serafino Ferruzzi, si
trovò così alla guida
del principale polo chimico privato italiano (300 aziende e 52.000
dipendenti) con una storia industriale che la vedeva attiva
principalmente nel settore agroalimentare, e che in seguito alla morte
del fondatore per un incidente aereo, nel 1979, era stata affidata dalla
famiglia Ferruzzi a Raul Gardini, marito di una delle figlie dell'ex
patron del gruppo. Un retroscena della vicenda che ha portato Gardini
alla Montedison è raccontato da Bisignani (pag. 128, op. cit.)
nell'episodio della benedizione richiesta a
Giulio Andreotti,
che alla fine fu convinto dalla sua visione strategica. Gli interessi
di Raul Gardini spaziavano dall’agroindustria ai biocarburanti, fino
alle strategie di penetrazione nel mondo industriale dell’Est Europa,
grazie ai rapporti coltivati dal manager ravennate con
Gorbaciov, all’epoca Presidente dell’
Unione Sovietica,
principale aquirente di soia dalla Ferruzzi, nel quale il gruppo aveva
ottenuto una importante commessa per la riconversione delle aziende
agricole della regione di Stavropol.
La joint-venture Enimont però s’infranse, dopo appena due anni,
nella zona grigia che tradizionalmente ruotava intorno all’Eni, uno dei
baricentri del sistema politico e finanziario italiano, portando ad una
tragica fine i suoi protagonisti principali e a strascichi giudiziari
che finirono per compromettere tutte le segreterie dei partiti di
potere.
Il drammatico fallimento della fusione venne spiegato da Raul Gardini stesso in una lettera pubblicata su
La Repubblica,
il 16 Marzo 1990, in cui le colpe venivano attribuite all’Eni, la quale
non avrebbe adempiuto pienamente agli impegni presi all’atto della
stipula della convenzione, trattando l’Enimont come se fosse una sua
controllata, come una variante dell’Enichem.
L’operazione di fusione dei due colossi prevedeva che ad ogni gruppo spettasse
il 40% delle azioni, il restante 20% dei titoli invece andava collocato sul mercato. Raul Gardini, in poche settimane, riuscì a rastrellare
l’11% dei titoli, tramite
Gianni Varasi e Jean Marc Vernes,
raggiungendo così la maggioranza del 51% delle azioni di Enimont, con
le quali Gardini puntava ad avere il controllo del nuovo mostro della
chimica e degli idrocarburi. L’acquisizione dei titoli fu ottenuta con
spregiudicatezza, come raccontato da Luigi Bisignani, utilizzando
all’insaputa degli eredi di Serafino Ferruzzi il tesoretto del fondo
della famiglia Ferruzzi, gestito dal contabile occulto
Pino Berlini e da Gardini stesso (pag. 129 Op. Cit.).
Lo scontro che portò al fallimento della joint-venture, come lo stesso Gardini scrisse nella lettera pubblicata da Repubblica, riguardò il ruolo del Ministero delle Partecipazioni Statali,
che trattò l’intera operazione Enimont come se il risparmio raccolto in
borsa fosse stato semplicemente un “fondo di dotazione erogato a
perdere dallo Stato”, come se Enimont fosse stata una società quasi
pubblica, nonostante il 60% dei titoli fossero “in mano a privati”, cioè
a Raul Gardini. Pesanti strascichi poi emergevano sul piano
finanziario:
“…le ristrutturazioni industriali, riconosciute come necessarie sia
dal Cipe sia dalle parti sociali, non sono state iniziate. Si è inoltre
scoperto che gli investimenti previsti nel business plan in 4.500
miliardi per il triennio 1989-1991, finalizzati soprattutto ad una
strategia selettiva di ristrutturazione e rilancio del complesso
aziendale, erano stati in gran parte già impegnati, prima della
confluenza dell' Enichem nella Enimont, per continuare a realizzare una
strategia industriale sostanzialmente invariante. E ciò per una cifra di
circa 2.500 miliardi. L' Enichem confluita nell' Enimont aveva, in
specie, code di pagamenti, di circa 2.500 miliardi, da effettuarsi a
fronte di investimenti deliberati dall' Enichem/Anic, anche
immediatamente prima della creazione dell' Enimont. Conseguentemente,
gli esborsi effettuati e da effettuare per investimenti da parte dell'
Enimont hanno avuto un impatto finanziario non previsto sull'
indebitamento.”
Una delle condizioni che Raul Gardini richiedeva al mondo politico, per il successo dell’operazione Enimont, era relativa alla concessione degli sgravi fiscali promessi dal governo di Ciriaco De Mita
sulle plusvalenze dovute alla valutazione reale degli impianti. E’
sempre Bisignani a raccontare che Gardini si rivolse successivamente ad
Andreotti, in un colloquio al termine del quale il manager disse “Presidente se quei mille miliardi di sgravi fiscali non me li dà mi rivolgo in Francia dove ho credito illimitato.”
(pag. 128 Op. Cit.). Gli sgravi non furono concessi e Gardini sarebbe
stato di conseguenza costretto a mettere le mani sui fondi della
famiglia Ferruzzi, gestiti da Pino Berlini, il quale aveva già occultato
il buco di 450 milioni di dollari seguito alla causa contro il Chicago Board of Trade (la borsa di Chicago).
La guerra di Gardini contro l’Impero americano

L’11 luglio del 1989 la
Ferruzzi USA Inc., con uffici e aziende in
Louisiana,
finì nei guai a seguito di un esposto presentato dalle due principali concorrenti americane, la
Cargill e la
Archer Daniel Midland,
che causò la smobilitazione dei contratti a termine della Ferruzzi USA
dal mercato di Chicago. Gardini, in previsione di una stagione
eccezionale di siccità, aveva
rastrellato una quantità enorme di semi di soia
stoccandoli nei silos con l’obiettivo di farne alzare il prezzo,
creando così una situazione di vantaggio sul mercato finalizzata a
costringere i concorrenti a rivolgersi alla Ferruzzi per avere le
sementi. L’azione però non riuscì e suscitò la reazione delle due
potenti multinazionali americane che non erano affatto intenzionate a
consentirgli di diventare il re della soia negli USA, sfruttando delle
semplici manipolazioni del mercato.
La Ferruzzi, all’epoca leader della soia in Europa, aveva acquistato la
Central Soya Co.
e puntava ad un ruolo significativo nel mercato americano, oltre che a
rafforzare la posizione che aveva acquisito nell’esportazione di semi
energetici in
Cina ed in
Russia. La guerra della soia si
concluse nel 1993, dopo una serie di vicissitudini, comprese operazioni segrete e sabotaggi, con la
sospensione a tempo indeterminato della Ferruzzi, il pagamento di una multa di circa tre miliardi di lire e la perdita di almeno
450 milioni di dollari
(660 miliardi di lire dell’epoca), nonostante l’inconsistenza delle
accuse di trust alla Ferruzzi, il cui vantaggio economico
dell’operazione era stato vanificato dai traders della borsa di Chicago
che anziché far salire il prezzo della soia, lo avevano fatto scendere
paradossalmente del 50%.
Quando la Montedison uscì dalla joint venture Enimont, l’ENI fu autorizzata dal Ministero delle Partecipazioni Statali a pagare 2.800 miliardi di lire
per rilevare il 40% delle quote e le aziende della chimica di base ed
intermedi della Montedison, che rimasero tutte all’ENI, tra queste
aziende della chimica secondaria, dell’Agricoltura della detergenza,
della produzione di materie plastiche, e le raffinerie, come la Montedipe e controllate, l’Auschem, l’ACNA, la Vinavil, l’Ausim, la Montefibre, etc.
La maledizione dell’Eni…
Nel 1991 si consumò improvvisamente il divorzio tra Raul Gardini e la famiglia Ferruzzi, che lo sostituì con Arturo Ferruzzi in Ferfin, e con Carlo Sama in Montedison,
in seguito alla scoperta dell’utilizzo illecito del fondo di famiglia,
ed al sospetto che Gardini avesse creato dei fondi neri all’insaputa dei
soci della Ferfin e dei fratelli Arturo, Franca ed Alessandra Ferruzzi.
Gardini uscì di scena con una liquidazione di 505 miliardi di lire, che
pesarono non poco in quello che rimaneva della società di famiglia. In
seguito l’esposizione del gruppo Ferruzzi risultò ammontare a 31.000 miliardi di lire lordi (anche se la cifra reale sembrerebbe essere stata intorno ai 22.000 miliardi reali). Nel piano di ristrutturazione presentato da Carlo Sama, nel 1993, ai 10.176 miliardi
di esposizione della Ferfim, metà dei quali in valuta estera (la lira
nel frattempo, nel 1992, la lira si era svalutata pesantemente sotto gli
attacchi speculativi di Soros, uscendo temporaneamente dallo SME), si
aggiungevano quelli della Serafino Ferruzzi, la cassaforte di famiglia e
quelli della Fondiaria, che non vennero consolidati dalla Ferfin. La
cifra complessiva dei debiti andava ben oltre i 20.000 miliardi di lire.

- Enrico Cuccia
Nel libro intervista di Bisignani sono descritti i momenti drammatici della Ferruzzi, con Arturo Ferruzzi costretto da
Maurizio Romiti
ad operare per il salvataggio del gruppo, dopo aver firmato una lettera
di dimissioni in bianco. La Ferruzzi, secondo il faccendiere Bisignani,
avrebbe potuto ripianare il debito con la vendita del settore chimico,
della Fondiaria assicurazioni e della Calcestruzzi, concentrandosi
sull’energia, fondendo Edison e la società della famiglia Ferruzzi,
facendo diventare Eridania la holding di tutto il gruppo, mantenendo il
tradizionale business dell’agricoltura e dell’allevamento, con interessi
sparsi in tutto il mondo, dagli Stati Uniti all’Argentina. A mettere il
bastone tra le ruote a questa opzione, su cui la
Goldman Sachs, con
Costamagna e
Romano Prodi (che ne era consigliere), era disponibile a fare da garante, fu
Mediobanca, che, con
Geronzi, su imbeccata di
Gianni Agnelli,
impose il proprio piano di ristrutturazione. L’operazione di
smembramento fu condotta da Mediobanca imponendo agli amministratori
delegati delle tre banche di interesse nazionale del gruppo,
Comit,
Credito Italiano e
Banca di Roma,
di chiudere i conti del gruppo e di rientrare entro ventiquattrore di
tutti gli affidamenti. Un vero e proprio golpe di fronte al quale la
Banca Centrale se ne lavò le mani, costringendo la famiglia Ferruzzi a
firmare la resa, mentre Cuccia, con la complicità di Romiti, affidò lo
smembramento del gruppo ad un manager di sua fiducia,
Enrico Bondi.

Mentre a Ravenna si piangeva la fine di una saga industriale, a suonare la campana a morto di Raul Gardini fu un informatissimo
articolo pubblicato il 7 luglio sul
Corriere della Sera,
appena due settimane prima del suicidio del manager, in cui le ultime
frasi suonano come un oscuro presagio. Gardini, sulla cui morte
aleggiano i
sospetti adombrati dalla moglie già un anno dopo la sua scomparsa, si suicidò la sera del
23 luglio 1993 a Milano, nel suo palazzo settecentesco, tre giorni dopo il suicidio di
Gabriele Cagliari
trovato morto in carcere con un sacchetto di plastica che avvolgeva la
testa, e poco più di un mese dopo il ritrovamento del corpo di
Sergio Castellari, che per vent’anni era stato
direttore generale del Ministero delle Partecipazioni Statali.
La morte di Gardini diventò un altro mistero d’Italia, perché nessuno
sentì le detonazioni, la pistola risultò aver esploso due colpi e venne
ritrovata su un comodino, a due metri da cadavere. La mano con la quale
avrebbe dovuto premere il grilletto risultò negativa al test del guanto
di paraffina.

- G. Garofano
Nelle settimane precedenti la morte di Gardini, la procura di Milano
aveva stretto nella morsa i dirigenti di Ferruzzi. Il presidente della
Montedison,
Giuseppe Garofano, si diede ad un periodo
di latitanza a Londra, prima di essere arrestato in Svizzera, dove
doveva tenersi un summit con gli avvocati della Ferruzzi per decidere la
strategia difensiva. Furono arrestati poco dopo
Carlo Sama e
Sergio Cusani.
Nelle settimane successive la morte di Gardini i resti della Ferruzzi
furono divisi secondo un piano di Mediobanca tra i principali gruppi
industriali italiani. La
Fiat prese una importante partecipazione in
Edison,
Giampiero Pesenti rilevò la
Calcestruzzi e la
Heracles, gioiello del cemento greco; la
Fondiaria Assicurazioni passò al gruppo
Ligresti e le aziende agricole furono vendute a prezzi di molto al disotto del valore reale, come la
Open Ground,
23.000 ettari nel North Carolina, venduta per 40 milioni di dollari. La
distruzione del gruppo, dopo la morte di Gardini, si spinse fino a
costringere gli eredi di Serafino Ferruzzi ad una resa irregolare che
consentiva a Mediobanca di effettuare le operazioni di ristrutturazione
senza correre rischi in caso di fallimento. Una vera e propria opera di
killeraggio industriale, affidata a
Maurizio Romiti,
responsabile delle partecipazioni, che alla fine si rivelò un passo
falso, spalancando le porte dell’inchiesta della procura di Ravenna, che
portò alla scoperta dei fondi neri del gruppo, facendo emergere la
questione diventata poi nota come la madre di tutte le tangenti.

Gardini non è mai stato convocato dai magistrati del pool Mani Pulite, non fece in tempo, ma aveva saputo che il Gip
Italo Ghitti
stava per firmare la sua ordinanza di custodia cautelare, cosa che
avvenne effettivamente alle 9.15 del 23 luglio. L’ordinanza riguardava,
oltre Gardini, Carlo Sama, Sergio Cusani, Giuseppe Berlini e Vittorio
Giuliani Ricci, con l’accusa di falso in bilancio e finanziamento
illecito dei partiti, a seguito della maxitangente di 152 miliardi
prelevati dalla provvista di
Domenico Bonifaci.
Della ingente cifra rastrellata dai Ferruzzi per fare pace con i
partiti, dopo lo tsunami causato da Gardini, nel tentativo disperato di
salvare le sue aziende, 90 miliardi furono depositati sotto forma di CCT
presso lo
IOR, grazie a
Luigi Bisignani, che creò
il fondo Serafino, in onore al fondatore della Ferruzzi. L’ingente cifra avrebbe poi preso la strada dei conti cifrati in
Lussemburgo e
Svizzera, sparendo dai radar. Sergio Cusani restituì 35 miliardi.
Il processo sulla vicenda Enimont, conclusosi nel 2000, accerterà l’esistenza di un finanziamento illecito ai partiti, come risulta dalle dichiarazioni di Carlo Sama al pubblico ministero in riferimento alla maxitangente Enimont del 1991:
“70 miliardi sono andati al Psi, nella persona del suo segretario
politico, Bettino Craxi. Qualche decina di miliardi è stata versata alla
Dc per il tramite del suo segretario politico Forlani. La restante
parte della tangente è stata versata a vari personaggi politici che
avevano avuto un peso nella definizione dell’affare Enimont. Qualche
miliardo è andato a Cirino Pomicino, in relazione alla sua carica di
responsabile del Cipi; qualche miliardo a Claudio Martelli, per la sua
posizione favorevole alle logiche imprenditoriali della Ferruzzi e della
Montedison nel settore della chimica; qualche miliardo a Franco Piga,
per il ruolo dallo stesso svolto nella predisposizione del prezzo di
cessione delle azioni Enimont; qualche miliardo a Gabriele Cagliari,
nella sua qualità di presidente dell’Eni; qualche miliardo all’ingegner
Alberto Grotti, vicepresidente dell’Eni. Altre somme di denaro che non
ricordo sono state versate a Pompeo Locatelli e Vincenzo Palladino”. Mario Almerighi ( Tre suicidi eccellenti. Gardini. Cagliari. Castellari , Editori Riuniti, pp. 239)
Raul Gardini e Gladio

A parlare della presunta appartenenza di Gardini a Gladio è
Antonino Arconte, ex appartenente al corpo speciale
Comsubin
della Marina Militare (Matr. G-71VO155M) e gladiatore (non incluso
nell’elenco ufficiale inviato al parlamento il 26 febbraio 1991 dal
presidente del Consiglio Giulio Andreotti). Arconte sostiene di aver
vissuto per 15 anni da infiltrato in Unione Sovietica, Libia, Tunisia,
Marocco, Vietnam, Cina, Portogallo. I suoi racconti hanno suggerito
scenari inediti su diverse vicende tuttora oggetto di disputa
storiografica, come nel caso del suo ruolo nella vicenda del sequestro
Aldo Moro, alle missioni segrete in Libia e Medio Oriente. Nel suo
libro, “L’ultima Missione – G71 e la verità negata”, Arconte riferisce
che Gardini facesse parte di una
Supergladio, nota anche come
Super-SID,
una sorta di servizio segreto parallelo, che sarebbe stato operativo
per 15 anni, dal 1972 fino al 1987, composto da 280 militari altamente
addestrati e una
struttura civile parallela, la cosiddetta “Terza Centuria”, conosciuta anche come la
divisione “Colombe”,
una struttura che si occupava di raccogliere principalmente
informazioni, della quale il manager ravennate faceva parte, grazie alle
sue enormi conoscenze del mondo della finanza internazionale, sul
sistema di finanziamento dei partiti e per i suoi rapporti economici con
l’Unione Sovietica, con i quali era in grado di fornire informazioni
sul PCI. La testimonianza di Arconte va ovviamente presa con cautela, ma
vale la pena sottolineare che il ruolo di Gardini possa essere datato,
per le caratteristiche che avrebbe avuto questa struttura segreta, a
partire dal 1979, quando divenne effettivamente manager della Ferruzzi.

Arconte racconta che avrebbe anche lavorato per un due mesi per la
sicurezza e protezione dei silos di soia di proprietà della Ferruzzi a
Mildre Grove, tra
Baton Rouge e
New Orleans in
Mississipi, nel
1982,
dove i beni del gruppo avevano subito un tentativo di sabotaggio. A
bordo delle navi del Fermar del gruppo Ferruzzi, riferisce ancora il
gladiatore, c’erano sempre appartenenti a Gladio a svolgere funzioni di
sorveglianza e sicurezza. Antonino Arconte, che sostiene di aver
incontrato Gardini anche a casa di
Charles Bernard Moses, ritenuto un agente di collegamento tra la Gladio italiana e la
Stay Behind USA, è stato anche firmatario, con un altro gladiatore, di un
esposto,
inviato il 18 Febbraio 2004 alla procura della Repubblica di Perugia,
in cui si chiede di effettuare indagini su alcune morti sospette di
appartenenti a Gladio, a partire dalla circostanza che Gardini si
sarebbe suicidato lo stesso giorno in cui fu inviato alla Commissione
Europea dei Diritti dell’Uomo un esposto sugli episodi di persecuzione
giudiziaria nei confronti di persone che testimoniavano della loro
appartenenza all’Organizzazione Gladio. L’esposto sarebbe stato
concordato con Raul Gardini stesso, con il quale i gladiatori avevano
deciso anche la data di spedizione, avendo Gardini appreso l’imminenza
della comunicazione giudiziaria effettivamente firmata il 23 luglio
1993.

- Gen. Jucci
A parzialissimo sostegno di questa suggestiva ipotesi ci sarebbe
anche un episodio raccontato da Luigi Bisignani (pag. 124 Op. Cit.) a
proposito della circostanza che a presentare Gardini a Bisignani, nel
1990, sarebbe stato il
generale Roberto Jucci, con il
quale il manager ravennate era in ottimi rapporti. Jucci, cognato di
Andreotti, quando era colonello del SID fu incaricato di una missione
segreta con la Libia di Gheddafi, nel 1972. L’operazione era finalizzata
all’acquisto di 50 milioni di barili di petrolio a prezzi inferiori a
quelli di mercato, in cambio la Libia avrebbe ricevuto 25,5 miliardi di
lire di armi prodotte in Italia, su licenza americana.
Aldo Moro, per ovviare alle resistenze americane
sull’operazione, si accordò con il libici per consegnare materiale in
possesso dell’esercito italiano.Gli Stati Uniti chiesero che l’Italia
acquistasse 45 miliardi di lire dell’epoca in armi americane più la
concessione della Maddalena e di Lampedusa come basi militari USA. Jucci
inoltre aveva stabilito rapporti con il mondo della destra
extraparlamentare dai tempi del SIFAR, in collaborazione con il colonnello Vicini,
il quale era il comandante del reparto guastatori del servizio che si
addestrava in Sardegna, con disponibilità illimitata di esplosivi. Jucci
e Vicini facevano capo all’Ufficio Alti Studi Strategici, sistemato a Palazzo Chigi, dove era insediato un uomo ombra di Andreotti, l’avvocato Filippo De Jorio, consigliere regionale DC del Lazio, nonché avvocato difensore ed amico di Junio Valerio Borghese nel processo per il tentato golpe “La Rosa dei Venti”
(Stefania Limiti, L’anello della Repubblica, Chiarelettere, pag. 90-91 –
Pietro Messina, “Il cuore nero dei servizi”, BUR, pag. 293-294; Miguel
Gotor, “Il memoriale della Repubblica”, Einaudi, pag. 510). Il generale
Jucci fu in predicato di diventare capo del SISMI, appena dopo la riforma dei servizi segreti, nel 1977, la sua candidatura contro il generale Miceli fu però ostacolata fin dal 1976 dalla campagna di stampa orchestrata dall’Agenzia OP di Mino Pecorelli, congetturando sulla parentela tra Jucci ed Andreotti, svelando il traffico di armi con la Libia.
Le dichiarazioni di Carmine Schiavone ed i rifiuti tossici dell’ACNA di Cengio
La recente desecretazione delle
dichiarazioni rese da
Carmine Schiavone nel 1997 alla
Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul “Ciclo dei Rifiuti e delle attività ad esso connesse”
rafforzano la conoscenza di alcuni passaggi già noti relativi alle
procedure adottate per trasferire i rifiuti industriali, tossici e
pericolosi, dal nord al sud, dove venivano interrati principalmente
nelle discariche autorizzate, attraverso le regolari autorizzazioni
concesse dalle province, oppure nelle discariche abusive.

Carmine Schiavone data al
1988 l’origine della vicenda, per la parte riguardante il coinvolgimento del
clan dei casalesi
relativa all’interramento dei fusti di rifiuti tossici nelle cave
abusive, dove le aziende del clan prelevavano i materiali inerti per il
calcestruzzo ed il rilevato da utilizzare per i lavori dell’asse viario
Nola-Villa Literno. I rifiuti sversati, tra cui anche quelli nucleari,
sono genericamente descritti da Schiavone come
scarti provenienti da industrie di vernici e pitture, concerie, ed industrie chimiche. Un particolare importante riguarda la
procedura di fatturazione operata dalle società che gestivano le discariche, le quali
facevano risultare sversati rifiuti che in realtà venivano interrati presso altre discariche o abusivamente, di modo da non occupare i volumi della discarica che aveva ottenuto l’autorizzazione. In particolare
la discarica di Pianura, a Napoli, la
Di.Fra.Bi. gestita dal connubio
La Marca e
Di Francia,
secondo Carmine Schiavone, praticava questo “giro di bolla” per non
occupare troppo la volumetria dell’enorme sversatoio che serviva una
popolazione di 4 milioni di abitanti.
Nel caso della Di.Fra.Bi di Pianura, nella città di Napoli, la
discarica (chiusa nel 1994), era situata in una grossa cavità formatasi
con l’attività di estrazione della pozzolana. L’area conosciuta come
l’oasi degli Astroni, i cui 6 invasi sono attualmente riempiti dai
rifiuti, approssimativamente era estesa per 70 ettari. Gli invasi avevano profondità massime di 50-60 metri che arrivavano fino al di sotto della quota della campagna circostante, fino ad 30 metri di profondità. La discarica ha ricevuto prelaventemente, tra il 1950 ed il 1994, rifiuti urbani ed assimilabili; rifiuti speciali, tossici e nocivi per un 23% del fatturato totale,
oltre a rifiuti ospedalieri, 5-10% del fatturato. Complessivamente la
discarica di Pianura ha ricevuto rifiuti per un totale stimato tra i 50 e 70 milioni di mc. Nei rilevamenti effettuati sulle acque sotterranee, si è evidenziata la presenza significativa di Cloruri, Solfati, Azoto Nitrico e Fosfati, oltre a dati anomali di Ferro, Manganese e Magnesio
nei pozzi a valle, sostanze che comunque esistono anche in natura per
cui è tuttora dibattuta l’incidenza degli sversamenti nella discarica.
Mentre La presenza massiccia di Tricloroetilene, un
solvente usato fin dagli anni ’20 per l’estrazione di oli vegetali da
piante quali la soia, o per la decaffeinizzazione, una sostanza rilevata
in quantità tali per ritenere esserci un vera e propria “contaminazione
generale dell’area” (Rapporto ANPA, Osservatorio Nazionale Rifiuti, del
2001), non lascia alcun dubbio sulla sua origine industriale, essendo
stato rilevato a valle della discarica. Altre sostanze chimiche rilevate
nelle acque di percolazione sono poi gli oli minerali e gli
idrocarburi.

La discarica Di.Fra.Bi. il
1985 ed il
1996 è stata autorizzata a ricevere
730mila tonnellate all’anno di rifiuti urbani e
150mila tonnellate di speciali e tossici, tutti regolarmente documentati, tra cui “
800.000 tonnellate dei rifiuti derivanti dalla bonifica dell’ACNA di Cengio”, una industria che produceva
374 tipi di composti chimici, compresi quelli per scopi militari non convenzionali. L’
ACNA,
all’epoca proprietà del gruppo Montedison, ha sversato decine di migliaia di tonnellate regolarmente fatturate anche nelle discariche di
località Scafarea di Giugliano, di proprietà del pentito
Gaetano Vassallo e nelle discariche
Resit 1 e 2, di proprietà dell’avvocato
Cipriano Chianese.
L’azienda chimica di Cengio, in provincia di Savona, ebbe un destino
travagliato. Nel 1990, in seguito al fallimento della fusione Enimont,
l’ACNA, con un fatturato in caduta libera ed una esposizione di 80 miliardi di lire,
rimase al gruppo Eni, tornando quindi allo Stato. Per l’Eni non fu un
grande affare ed il piano di ristrutturazione aziendale affidato all’Enichem
concluse, nel 1991, che l’ACNA era irrecuperabile. Pesava inoltre
l’eredità dell’azienda sull’intera Val Bormida, dove erano stati
interrati un milione di tonnellate di rifiuti tossici ed inquinata
un’area che si estendeva per 70 km.
In un contesto caratterizzato dalle proteste, anche spettacolari, degli
ambientalisti bormidesi, che arrivarono a bloccare una tappa del Giro
d’Italia per chiedere la chiusura della fabbrica e la bonifica
ambientale, mentre iniziava il processo che metteva sotto accusa l’ACNA
per inquinamento ambientale, la commissione Lopreno istituita dal ministero dell’Ambiente nel 1988 rilevò l’assoluta “incertezza circa la quantità e la qualità dei rifiuti prodotti dell’ACNA”.
Tra le forze politiche della Val Bormida si era inoltre diffusa la voce
che circa 400 tonnellate di scarti erano stati trasferiti dall’ACNA in
Romania.
Quantità che fanno a pugni con le cifre dei conferimenti effettuati
dall’ACNA nelle discariche di Pianura e Giugliano, centinaia di
chilometri a sud dalla Val Bormida. I rifiuti finiti nelle dicariche
camopane sono stati definiti come fanghi di risulta del materiale di
bonifica dell’area dell’Acna di Cengio, come dichiarato su diversi
documenti “ufficiali”. La discarica di Pianura, dove risultano sversate 800.000 tonnellate dei rifiuti dell’azienda chimica, ha chiuso definitivamente nel 1995, mentre
la bonifica dell’ACNA di Cengio è iniziata solo dopo la battaglia
legale che ha portato alla definitiva chiusura della fabbrica nel 1999. Una vittoria per gli ambientalisti della Val Bormida, il cui cuore pulsante, Renzo Fontana, non riuscì a vedere l’inizio dei lavori di bonifica, a causa di un incidente stradale in cui morì, l’11 settembre 2002.

La questione ACNA, una delle più importanti battaglie ambientaliste
condotte in Italia, all’epoca si incrociò mediaticamente anche con la
vicenda della
Karin B, la nave dei veleni
che fece accendere i riflettori sul traffico di rifiuti dall’Europa
verso l’Africa, portando a mettere sotto accusa l’intero settore della
chimica italiana. La legislazione esistente all’epoca consentiva alle
regioni ed agli organi centrali di autorizzare l’esportazione dei
rifiuti di ogni tipo dai porti italiani tramite la
formula del silenzio assenso,
entro 30 gg. alla presentazione della richiesta. Con un fatturato di
49mila miliardi e 225 mila persone occupate e sotto accusa dalle
organizzazioni ambientaliste per l’inquinamento ambientale
, Giorgio Porta, presidente di Federchimica e vicepresidente della Montedison, in un
articolo
apparso il 22 settembre del 1988 sul quotidiano La Repubblica, diede i
numeri della produzione industriale italiana, che ogni anno produceva
15-20 milioni di tonnellate di rifiuti industriali, di cui quelli della chimica
corrispondevano ad 1 milione di tonnellate, la maggior parte delle quali “smaltita all’interno degli stabilimenti”, mentre la parte rimanente,
circa il 5-6%, risultava tossica e nociva,
appena 50.000 tonnellate all’anno del totale della produzione nazionale
del comparto chimico, quindi, secondo il vicepresidente della
Montedison dell’epoca, uomo di Raul Gardini.
Emiliano Di Marco
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