Ladri di pubblico denaro, ladri di verità. Non c’è altro modo per qualificarli, per descriverli. Prima di sono appropriati del pubblico denaro, se lo sono spartito, se lo sono speso per le loro feste, festini e bagordi; poi, ora, rubano la verità. Perché è un coro nel dire: così fan tutti. No, non è vero: così fanno loro, non i radicali. I radicali hanno l’orgoglio e la fierezza di aver denunciato lo scandalo in Lombardia e in Lazio, e di poterlo fare perché i radicali non fanno parte del regime spartitorio che sgoverna questo paese. C’è una prova del nove che è semplice, alla portata di tutti. Prendete gli ormai numerosi libri che denunciano fatti e misfatti consumati in questi anni, prendete le inchieste giornalistiche che parlano di corruzione e di indebita appropriazione di pubblico denaro; il libro dell’autore che preferite, il giornale della tendenza politica in cui vi riconoscere; andate a guardare nell’indice dei nomi: li trovate tutti, politici o sedicenti tali di destra, centro e sinistra. C’è però una significativa assenza: i radicali. In più di cinquant’anni di vita di questo partito non un esponente, un dirigente, un semplice iscritto è mai stato condannato, arrestato, indagato, inquisito per appropriazione indebita, concussione, corruzione o altri simili reati. Diceva Indro Montanelli che i radicali odorano di bucato pulito. Loro, i ladri di denaro pubblico e di verità, dicono che sono tutti uguali, che tutti hanno rubato, che tutti rubano. Non è vero. I radicali, non l’hanno mai fatto. E di queste loro affermazioni false, dette sapendo di dire il falso, si chiamino Berlusconi o D’Alema ne dovranno rispondere.
È quello che suggerisce Leonardo Sciascia nel “Giorno della civetta”, racconto scritto, pensate, nell’estate 1960 e pubblicato l’anno dopo: “Bisognerebbe di colpo piombare sulle banche; mettere mani esperte nelle contabilità generalmente a doppio fondo, delle grandi e piccole aziende, revisionare i catasti…”. Bisognerebbe, suggerisce Sciascia, “sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale”, “annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari: e confrontarne quei segni di ricchezza allo stipendio, e tirarne il giusto senso…”.
Ecco: a più di cinquant’anni da quel romanzo che qualche imbecille ritiene sia ammirativo nei confronti della mafia, ancora quel giusto senso non siamo nella condizione di poterlo tirare. L’antidoto, il rimedio, si chiama “Anagrafe pubblica degli eletti e dei nominati”. Anche questo è un antidoto, un rimedio radicale. Perché non la si vuole, non la si attua, perché si impedisce conoscenza e sapere non c’è bisogno di spiegarlo. Se ci fosse i Fiorito e i loro complici avrebbero una vita molto più difficile. Buona giornata. E buona fortuna.
Fonte: http://notizie.radicali.it
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