IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO

domenica 30 settembre 2012

SQUINZI, TROPPE TASSE PER LE IMPRESE SERVE UN GOVERNO DI POLITICI, NO SQUINZI, SERVE UNA CLASSE POLITICA ONESTA!



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L'intervista/Squinzi: «Stiamo morendo
di tasse, serve un governo politico»

Il presidente di Confindustria: «Pronti a rinunciare agli incentivi se cala l’Irap»

di Alessandro Barano
ROMA - Di incentivi si può vivacchiare ma di tasse si muore. L’impresa italiana fa volentieri a meno dei primi pur di vedere tagliate le seconde. Il federalismo va riscritto per restituire responsabilità a chi governa. L’esecutivo dei tecnici va archiviato e sostituito da una maggioranza politica e da un premier che sia passato per la prova della candidatura personale. Le riforme vanno accelerate, poiché il tempo stringe, ma gli aiuti dell’Europa per ora non servono. La legge Fornero sul lavoro è stata un’occasione persa, ora si deve produrre di più e gli imprenditori sono pronti a un accordo con il sindacato. Alla Fiat bisogna ricordare che non esiste un grande Paese senza un’impresa automobilistica nazionale. Quanto all’Ilva, va difesa senza remore da una politica industriale autorevole. Lo Squinzi pensiero si scrive in queste coordinate. Il presidente di Confindustria le riassume mentre raggiunge gli stati generali della Lega al Lingotto di Torino.

Ma il suo primo pensiero è per gli scandali che dal Piemonte al Lazio, dall’Emilia alla Liguria occupano le pagine dei giornali. «Questi fatti - dice - dimostrano che è generalizzato un sistema che usa il denaro pubblico senza ritegno. Purtroppo, la tensione morale che dovrebbe governare la politica è del tutto assente a livello locale».

L’impianto del federalismo va ripensato?
«Un’autonomia che rasenta l’anarchia ci porta fuori controllo e ci espone a questi eccessi. Il federalismo presuppone la responsabilità di chi governa nei confronti degli elettori, se esso si fonda sulla distribuzione a pioggia di contributi statali spalmati sulle Regioni lo spreco è quasi automatico».

A prescindere dalla liceità?
«Certo. Mi è capitato di andare alle più importanti fiere internazionali di settore e trovare gli stand di Province e piccoli Comuni italiani che promuovono i loro prodotti. È ridicolo. Uno spreco di denaro che fa raccapriccio. Soprattutto se si pensa che la promozione del sistema Paese è affidata a un istituto per il commercio estero prima sciolto, poi ricostituito e non ancora operativo. Cosicché da due anni manchiamo completamente sulla scena internazionale e ci surroga il Comune di Vattelapesca».

Riforma del titolo V della Costituzione da cambiare?
«Subito».

Il ministro Passera propone di commissariare gli enti non virtuosi. Qualcuno, oltre confine, commissarierebbe volentieri l’intera politica italiana.
«Non ci siamo espressi al meglio negli ultimi tempi, ma siamo un Paese abbastanza avanzato da permetterci una politica vera e nostra, senza bisogno di commissari esterni. Nel mondo degli affari c’è molto rispetto per le imprese italiane. Perché siamo competitivi, anche di recente stiamo acquisendo sul mercato globale nuove quote di mercato. C’è uno iato tra la narrazione del Paese e la percezione della sua economia reale all’estero».

Imprenditori tutti buoni e bravi e politici tutti scadenti: non è un’equazione troppo manichea?
«Lo è, ma la fa lei, non io. Ci sono diversi tipi di imprenditori. Quelli che si battono tutti i giorni sui mercati mondiali, nonostante le diseconomie e le palle al piede del sistema Paese. E quelli abituati a vivere sui sussidi, i quali devono rendersi conto che il vento è cambiato. Secondo il rapporto Giavazzi, su trenta miliardi di incentivi ne arrivano solo tre alle imprese private. E intanto stiamo morendo di tasse. L’incidenza della pressione fiscale sulle imprese è del 57% se si sottrae il Pil sommerso. Il cuneo fiscale tra salario netto e lordo è al 47,6%, dieci punti in più della media Ocse. Di fronte a queste cifre monstre, io dico: toglieteci qualunque incentivo ma tagliate anche le tasse e fateci competere come sappiamo sul mercato globale. Siamo un Paese che sacrifica la ricerca sull’altare dell’Irap, è un controsenso».

L’immagine della classe dirigente all’estero è ancora quella che Luigi Zingales nel suo ultimo libro “Manifesto capitalista” chiama peggiocrazia?
«Dobbiamo ricostruire una classe politica adeguata e una classe dirigente che le faccia da supporto. Ma non siamo nel mirino come Paese più di quanto lo sia l’Europa intera. Sono reduce dall’assemblea della chimica europea, dove ho colto altrettanta preoccupazione nei confronti della Francia, un Paese che rischia il declino almeno quanto noi. Certo, non mancano altrove leadership con le gambe d’argilla. Se penso ai 17 trilioni di dollari di debito pubblico degli Usa e al deficit commerciale di 600/700 miliardi all’anno, non capisco come possano conservare la tripla A».

Ma di fronte al pressing internazionale perché Monti resti al suo posto, l’Italia deve archiviare la politica, convincere Monti a entrarci o fare a meno di lui?
«Al di là dei nomi, e il suo è un nome spendibile, io faccio un altro ragionamento. Noi abbiamo bisogno di avere una guida politica sicura, che conquisti la maggioranza dei voti e che abbia una stabilità interna, un programma e una capacità di operare nella prossima legislatura».

Esclude che un premier non candidato possa trovare dopo le elezioni il consenso di una maggioranza più ampia di quella che l’equilibrio bipolare della Seconda Repubblica ha garantito?
«Non credo che un presidente non candidato possa gestire la prossima legislatura, perché quella che abbiamo visto in questi mesi è un’esperienza di governo che onestamente ha palesato molte difficoltà».

Ma salverebbe lo spirito dell’esecutivo Monti? Magari da tradurre in un memorandum che impegni i partiti firmatari sulla strada di Europa, rigore e riforme già intraprese?
«Quello che serve è un programma serio, in cui non si facciano promesse mirabolanti a un elettorato che non merita bugie. Mi accontenterei che si dicesse la verità e che su questa si fondassero obiettivi e si mobilitasse una classe dirigente credibile».

Ma con l’attuale legge elettorale può uscire una maggioranza di questo tipo?
«La legge elettorale deve cambiare. E garantire partecipazione, corretta selezione della classe dirigente e governabilità. Gli appelli del presidente della Repubblica sono stati chiari. È auspicabile che siano accolti».

Lei è ottimista?
«Sì, perché vedo crescere la consapevolezza che non ci si può più perdere in giochetti».

Ma l’Italia dovrebbe-potrebbe chiedere aiuto all’Europa?
«Se lo facesse non sarebbe un dramma. Ma per ora non ne ha bisogno e mi auguro che così sia anche nel medio termine, perché vorrebbe dire che l’economia migliora».

Nonostante il Pil negativo di mezzo punto stimato nel 2013 da Confindustria, il calo dei consumi e le compravendite di case che crollano?
«Anche se il dato del 2013 sarà negativo, sono convinto che nella seconda parte dell’anno inizierà la ripresa».

Ma intanto la fase due del governo a che punto è?
«Questo governo ha ancora un paio di mesi di operatività, perché da metà dicembre inizierà la campagna elettorale. Bisogna fare subito quel poco che si può».

Che cosa in cima?
«Mi accontenterei delle norme sulla semplificazione burocratica, di qualche investimento per far ripartire le infrastrutture, dei pagamenti della pubblica amministrazione e di un segnale su innovazione e ricerca, le due cenerentole italiane. I soldi scarseggiano, ma si può pensare a forme di finanziamento alternative come project financing e qualche partnership pubblico-privata. Sarebbe un modo per far ripartire l’occupazione».

Non basterà la riforma del lavoro?
«La riforma del lavoro è un’occasione persa».

L’aveva già detto, no?
«E non fui creduto. Ma sono abituato a essere bersagliato per poi avere il riconoscimento generale che ciò che dicevo non era così sbagliato. Il ministro Fornero ha promesso in Confindustria che ci sarà il monitoraggio sugli effetti delle nuove norme. Chiedo sia rapidissimo, al massimo due mesi e non i sei ipotizzati. Altrimenti la legislatura cessa e il governo rischia di lasciare una legge da correggere senza che ci sia la certezza di poterlo fare dopo».

Si fa l'accordo sulla produttività? E con chi? Lei davvero spera di convincere la Cgil?
«Ci proviamo con molta intensità, raccogliendo l’appello del premier. Dobbiamo e possiamo trovare un accordo. Nella classifica del costo del lavoro per unità di prodotto abbiamo perso venti punti rispetto alla Germania. Se mettiamo da parte le ideologie ne possiamo recuperare la metà. Non dimentichiamo che Monti il 18 ottobre dovrà pure portare qualcosa di concreto all’Europa».

Che cosa le ha detto la Camusso nell’incontro riservato di qualche giorno fa?
«Non siamo entrati nei dettagli. Però ho capito che lei si rende conto della necessità di cercare un’intesa. Sono ottimista».

Ma che cosa chiedete in concreto al sindacato?
«La trattativa per la produttività deve portare a un solo obiettivo: lavorare di più».

Tutti 40 ore a settimana?
«Discutiamo di più ore, ma anche di meno ferie. Mettiamo sul tavolo tutte le idee possibili purché si raggiunga l’obiettivo».

Voi siete pronti a discutere di premi?
«La trattativa è aperta a tutto».

Se l’accordo sulla produttività si chiude le imprese torneranno a investire in Italia? La Fiat, per esempio...
«Da presidente di Confindustria non voglio mettere il naso negli affari di chi è uscito dal nostro sistema. Ma da cittadino ritengo che non ci sia un grande Paese al mondo senza un’impresa automobilistica nazionale. A meno che non parliamo di Svizzera, Belgio o Olanda. Non so cosa abbia in testa Marchionne, ma noi abbiamo il dovere di tutelare la Fiat e soprattutto il suo grande indotto».

Per una Fiat che s’interroga se restare c’è un’Ilva che invece lotta per continuare.
«E merita tutto il mio appoggio. Ricordo che la famiglia Riva diciassette anni fa ha preso dallo Stato un’azienda in condizioni molto difficili, l’ha rilanciata e modernizzata. Ora le si può chiedere di accelerare negli investimenti, ma pensare a una chiusura è devastante. Per le migliaia di lavoratori e per la bilancia commerciale. L’Ilva è un problema nazionale e noi chiediamo che la politica industriale scenda in campo con la sua autorità e senza remore».


Fonte: http://www.ilmessaggero.it

 

 

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